Itinerari
- Itinerario n°1 (Parte Prima)
di Gustavo Cannizzaro
La
zona Alta "Susu"
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Punto di partenza per una visita al centro
storico di Caulonia deve essere la Piazza Umberto I, già Mese.
Tale toponimo si desume chiaramente dalla parola greca "Mesos"
(centro, in mezzo a .. ..). Infatti ad una attenta lettura di
tutto il tessuto urbanistico affiora la caratteristica tipologia
urbana di epoca medioevale , secondo cui i centri abitati di
una certa entità avevano tre ampi slarghi o piazze destinate
ad altrettanti funzioni civili e religiose. Ed appunto in alto
vi è il Piano Baglio che era il centro commerciale, in basso
Piazza Seggio che era il centro politico e tra questi due poli
urbani la piazza Mese, che con la Chiesa Matrice rappresenta
ancora oggi il centro religioso (si fa presente che su questa
piazza si svolgono i suggestivi riti della settimana santa).
Strutturalmente la piazza presenta una forma irregolare, si
sviluppa su piani diversi, divisi in due zone dal selciato di
via Vincenzo Niutta, che declinano verso la torre campanaria
della Matrice. Grazie a questa forma, la piazza offre una suggestiva
prospettiva. Nel piano alto è collocata una fontana in ferro
stampato della fine dell'ottocento poggiante su piccola base
granitica. Prospicienti i lati della piazza vi sono raggruppamenti
di case e due dei palazzi signorili tra i più interessanti di
Caulonia: un lato del palazzo Hyerace e la ottocentesca facciata
del palazzo Cricelli, affiancato dalla settecentesca chiesa
della Badia. Recentemente la piazza è stata pavimentata con
lastre di granito calabrese in sostituzione della precedente
pavimentazione realizzata in cemento. In basso la piazza è chiusa
dal complesso architettonico della chiesa Matrice.
Veduta aerea di Caulonia
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Chiesa
Matrice "SS. Maria Assunta"
Il
complesso architettonico costituito dalla chiesa e dalla torre
campanaria, così come appare anche nell'incisione pubblicata
dal Pacichelli nel 1703, oltre a costituire un delle emergenze
architettoniche della città era, ed è ancora, tramite il
sotto- passaggio del campanile un nodo urbanistico importante
nella viabilità cittadina. Scarse sono le notizie sulla costruzione
della chiesa, riedificata a partire dal 1513 per volontà di
Vincenzo Carafa, secondo barone del suo casato di Castelvetere.
Verosimilmente la chiesa è stata costruita su una più antica
e nel corso dei secoli dovette subire vari rimaneggiamenti:
nel 1637
e dopo il terremoto del 1783. La facciata tripartita con la
torre campanaria addossata costituisce un esempio di architettura
spontanea, mentre le cupole con la caratteristica copertura
a tegole sono tipiche delle costruzioni sacre calabresi del
'600 e '700 e chiaramente sono ispirate a modelli più antichi
di origine bizantina sul tipo della Cattolica di Stilo. La tecnica
costruttiva di queste cupole rispetta in effetti la tradizione
architettonica basiliana, della quale restano tracce oltre che
nella chiesa Matrice anche in altri complessi, quali ad esempio
il teatro vecchio, ex chiesa di San Leo. Però, nel caso specifico
della chiesa Matrice, come si evince dalla diversità di livelli,
di grandezza ed anche dalla articolata disposizione planimetrica,
è molto probabile che qualcuna delle cupole non sia solo un
tardo rifacimento del XVII e XVIII secolo, ma una struttura
originale dell'epoca precedente. Il portale principale in granito
locale è sormontato da stemma con le armi Carafa in marmo bianco
di Carrara, forse dei primi anni del secolo XVI. L'interno è
a tre navate, divise da sei pilastri, con tetto a capriate,
eseguito di recente durante i lavori di restauro. Sotto l'arcata
mediana di destra della navata centrale vi è ancora il pulpito
ligneo del sec. XVIII. Nell'abside sono gli stalli in legno
di noce, dove una scritta sulla parte alta ricorda che furono
eseguiti nel 1757 su committenza dell' arciprete Annibale Passarelli.
Sul fondo si erge il monumento funerario di Giacomo Carafa,
primo barone sempre del suo casato di Castelvetere.
Chiesa Matrice
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Monumento
Funerario di Giacomo Carafa
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Il
monumento è scolpito in marmo bianco e presenta un lineare schema
architettonico rinascimentale, composto da una predella, due
pilastri architravati ed una lunetta fiancheggiata da due basi
marmoree, sulle quali poggiavano due vasi, trasportati, verso
la fine dell'Ottocento, nella sede vescovile di Gerace e dei
quali non si ha più traccia. Nella predella è raffigurata l'immagine
tradizionale del Cristo morto con i simboli della passione fiancheggiata
da due angeli adoranti; tra i pilastri è situato il sarcofago
sormontato da tre pannelli con la Madonna con Bambino, San Pietro
e Sant'Andrea nella lunetta è rappresentata la scena dell'Annunciazione.
Sul sarcofago e sulle basi dei pilastri sono scolpite le insegne
araldiche della famiglia Carafa della Spina. Dall'epigrafe scolpita
sul sarcofago sappiamo che il monumento fu fatto edificare per
Giacomo Carafa, morto nel 1489, dal figlio Vincenzo. Un'altra
epigrafe del 1637, posta in basso, attesta che l'opera fu fatta
restaurare da Girolamo Carafa, IV marchese di Castelvetere.
Quest'opera di cui non si conosce l'autore ripete il modello
del monumento funerario rinascimentale, che da Firenze si diffuse
poi per tutta l'Italia assumendo particolari varianti nelle
diverse regioni. La sua struttura iconografica mostra una chiara
derivazione da esempi napoletani e siciliani. Mentre le parti
decorative, come il fregio dell'architrave, le candelabre, i
festoni di frutta ed armi nelle loro raffinate variazioni testimoniano
di un virtuosismo di rara finezza chiaroscurale che riecheggia
certe decorazioni lombarde, introdotte nel meridione e soprattutto
in Sicilia da Domenico Gagini e poi ampiamente diffuse dal figlio
Antonello e dalla sua scuola. Non a caso, proprio i festoni
di fiori, frutta ed armi dei pilastri ricordano la decorazione
plastica eseguita da Antonello Gagini e dai suoi allievi per
la tribuna del Duomo di Palermo. Anche le sculture di questo
monumento, un tempo dorato e policromato, presentano vocaboli
gagineschi: il volto della Madonna, liscio e chiaro, con le
palpebre chinate, il lieve sorriso e le due ciocche di capelli
che scendendo le incorniciano il viso, rammenta, infatti, quello
della "Annunziata" della chiesa della Gancia di Palermo eseguita
da Antonello intorno al 1516, così come l'Annunciazione della
lunetta ricorda la "Annunciazione" dei Gagini del Museo di Erice
(1525). lI Cristo della predella infine, presenta strette analogie
con il "Cristo morto" della chiesa arcipretale di Soverato Sup.,
tradizionalmente attribuito al Gagini. Considerando questi agganci
stilistici con opere dello scultore siciliano eseguite tra il
1516 e il 1525, si può avanzare l'ipotesi che l'opera sia stata
eseguita nel secondo decennio del sec. XVI; il che trova, d'altronde,
conferma ove si consideri che la chiesa fu costruita tra il
1513 e il 1517 e che verosimilmente il sepolcro sia stato eseguito
nel contesto ditali lavori di ricostruzione. In fondo alla navata
sinistra è la cappella del Sacro Cuore con balaustra e altare
in marmi mischi, di tipico gusto settecentesco (eseguiti nel
1766 su committenza di Vincenzo Sergio , patrizio di Castelvetere
le cui armi gentilizie sono effigiate sui lati del paliotto).
Interessante anche la volta decorata con stucchi bianchi, dorati
e dipinti, con quattro riquadri dove sono raffigurati gli evangelisti.
Tutta la decorazione, che è in cattivo stato di conservazione,
è opera, con ogni probabilità, di maestranze locali del sec.
XIX. Nella navata destra è la cappella di Sant'Ilarione, che
presenta una decorazione a stucchi dorati di gusto neo-gotico
del secolo scorso. Sulla destra in una nicchia la
statua lignea del Santo patrono di Caulonia, opera eseguita
da un artista serrese nel 1815. La scultura
è da ritenersi importante, a prescindere dal suo valore religioso,
anche per l'aspetto storico-culturale che riveste. Infatti,
essa vuole ricordare come, nella nostra storia, al cristianesimo
di rito greco sia subentrato un cristianesimo di rito latino.
Sant' Ilarione è un santo orientale e nella liturgia greco-ortodossa
si festeggia il 21 ottobre come nel calendario cattolico. Certamente
i fedeli di rito greco l'avrebbero potuto rappresentare sotto
forma di icona sacra e non avrebbero potuto mai rappresentarlo
in una scultura dove, per sorta di cose, vi è la terza dimensione
(non dimentichiamo che il mondo bizantino ha combattuto le guerre
della iconoclastia). Si evidenzia, pertanto, che l'icona è una
rappresentazione ieratica, immateriale dell'immagine sacra,
mentre la scultura, per sua natura, è più corposa. Il mondo
bizantino ci aveva educato al culto delle icone, saranno i normanni
e soprattutto gli spagnoli ad introdurre, presso di noi, il
culto delle sculture. Ecco perché la statua lignea di Santo
Ilarione, vista in un contesto di sincretismo tra riti antichi
e nuovi, per noi assume un valore storico di non poca importanza.
Nella chiesa si conserva un interessante organo (molto danneggiato)
con cassa totalmente indipendente, registri con tiranti a pomello,
tastiera a "finestra" e pedaliera incassata.
Nel vano della tastiera è segnata la data del 1762. L'organo
opportunamente restaurato, data la sua rarità, potrebbe costituire
un valido supporto per l'esecuzione filologicamente corretta
di pagine musicali del rinascimento e del barocco.
Tra gli arredi di argento rilevanti sono il braccio reliquario
di Sant'Ilarione, il calice e 1' ostensorio. Il braccio reliquario
è un dono fatto da un membro di casa Carafa. Infatti, sulla
base èfinemente inciso lo stemma di questa famiglia, che tra
l'altro aveva il jus patronato sulla chiesa. La sobrietà della
decorazione di questo oggetto (su cui non si è rinvenuto alcun
punzone) rappresenta quella certa tendenza a sviluppare forme
semplici che si affermò tra gli argentieri napoletani fin dalla
prima metà del seicento. Il calice fu donato alla chiesa
dall' arciprete A. Passarelli nel 1745 e ciò è ancora leggibile
sul bordo della base. Questo oggetto, su cui è inciso un punzone
consolare di Napoli, è di manifattura eccellente e, per la sua
ricca ed elegante decorazione, costituisce un bello esemplare
di gusto rococò. L'ostensorio, commissionato nel 1804 da Vincenzo
Maria Carafa ad un argentiere napolitano, è lavorato a getto
e a cesello e pur collocandosi in pieno periodo di neoclassicismo
rivela cifre stilistiche ancorate a modelli settecenteschi.
Usciti dalla chiesa si percorre tutta la piazza fino alla parte
più alta dove è l'ingresso della Badia.
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