"I
Santa Lucia u bonu massaru siminatu 'ndavìa."
Si!
Per il tredici dicembre il nostro contadino aveva dovuto provvedere
ad ogni atto della semina. Dopo quella data, con il terreno
tenero (molle) o duro, il tutto doveva essere stato fatto e
non rimaneva altro che attendere buoni raccolti. Sempre per
quella scadenza ogni animo si preparava per essere sempre più
lieto e più sereno: era il giorno della luce. Ci si avviava
verso il 25 dicembre dando inizio alla novena di Natale; anche
se la natura, piuttosto avversa, ci traghettava sempre più
verso il regno della notte, le nostre donne affollavano la chiesa
per ottenere la protezione dalla Santa della luce, della vista.
"I
Santu Nicola a Santa Lucia
criscinu i jorna a nu passu i pudija.
I Santa Lucia a Natali
Criscinu i jorna a nu passu i cani.
I Natali in poi
Criscinu i jorna a nu passu i voi.
Molto
sentito era il culto verso la Vergine siracusana e in suo onore
si innalzavano cori e nenie.
Numerose erano le filastrocche che la interessavano:
|
"Santa
Lucia 'nta nna cammara stacìa
dà filava e dà tessìa
lu Signuri dà 'nci ja
'Tu chi fai o Lucia'
'Chi voliti mu fazzu,
Signuri meu! Ca mi calau
na panna all'occhi'.
U Signuri 'nci rispundìu
'Vattindi sutta all'ortu
cogghi barbara e finocchi'.
Cu li mani li schjantava.
Cu li pedi li scarpisava.
E poi Diu li benedissi.
'Fai, Lucia, comu eu ti dissi'."
|
I
devoti spesso per una grazia ricevuta non si dimenticavano del
digiuno, della "porgìa"..
Era quest'ultima un particolare piatto che costituiva l'unica
pietanza per quel giorno di magro. Già da giorni precedenti
si mettevano a mollo i "cocci
du paniculu" (i chicchi di mais) e mattina del
tredici si passava alla cottura. Quando la vivanda era ben cotta,
il tutto si condiva con dell'olio. Naturalmente non ci si metteva
a tavola se prima non si era provveduto ad offrire ad amici
e parenti un po' di quella povera pietanza dall'alto valore
simbolico, da cui il termine "porgìa"
(porgere). Anche questa Santa, presso di noi, prende forma in
una statua lignea e in una tela conservata nella chiesa del
SS. Rosario. La tela in pessimo stato di conservazione viene
identificata da M. Panarello come opera ritoccata da un pittore
monteleonese (vibonese) "che tra
il 1767 e il 1768 viene pagato per il ritoccamento della pittura
della cappella del SS.mo Sacramento nella chiesa Matrice di
Caulonia, dove si trovano, sulla volta, quattro riquadri con
Evangelisti che presentano caratteri stilistici affini ai dipinti
della navata stilese".
Pittore, quest' ultimo, che collaborò con l'artista Francesco
Saverio Mergolo. La statua di fattura locale è scolpita
in legno, dipinto al naturale e non presenta alcunché
di veramente pregevole. La Santa viene rappresentata con i suoi
attributi: la palma perché vergine e martire e gli occhi
sul vassoio sono lì a ricordare la violenza subita. Sempre
per il 13 dicembre si dava inizio alla conta dei "catamisi
e catamisicchji". Era questa una tradizione
molto viva e sentita nel mondo agricolo; da essa il saggio contadino
traeva gli auspici annuali. Nessun contratto di scambio, nessuna
seminagione o raccolto veniva fatta senza consultare i "catamisi".
Questo
spiega l'enorme importanza che tale sorta di oroscopo aveva
presso le nostre comunità. La parola "catamisi"
consta di due termini, "catà"
tra i tanti significati veniva adoperato nella lingua greca
anche in senso avverbiale come "giù" e "sopra",
mentre "misi" chiaramente
fa riferimento al "mese",
quindi l'intera parola vuoI significare "mese
giù e sopra il Natale" e ad un'osservazione
possiamo notare che si trattava dei dodici giorni che precedevano
il Natale e dei dodici giorni che lo seguivano. "i
catamisi" erano, come abbiamo detto, i dodici
giorni che avevano inizio il 13 dicembre e ogni giorno corrispondeva
e avrebbe dovuto riflettere le condizioni atmosferiche dei primi
quindici giorni di ciascun mese dell'anno iniziando da Gennaio,
mentre i "catamisicchj"
iniziavano il 25 dicembre per finire il 5 Gennaio ed ogni giorno,
pur con lo stesso riferimento alle condizioni climatiche, corrispondeva
alla seconda metà di ciascun mese dell'anno, iniziando
però la conta a ritroso a partire da dicembre.
Il
contadino nella notte del 5 Gennaio, detta del "Battesimo
dei tempi", allo scoccare della mezzanotte usciva
allo scoperto e nei primi cinque minuti, attentamente, scrutava
la volta celeste osservando la direzione delle nubi e quindi
dei venti. Da ciò riusciva a trarre le sue previsioni
annuali. Eventi lieti e copiosi raccolti si attendevano se le
nubi seguivano la direzione del vento che soffiava da "Levante"
ed infatti si era soliti dire "Levanti
linchi i vacanti"; un cattivo anno invece si
preannunciava per tutto il mondo agricolo se le nubi seguivano
la direzione di Libeccio, vento che soffia da Sud-Ovest, pertanto
si sentenziava "Lapici mai benefici";
mentre nessun rilievo era possibile ricavare se le nubi seguivano
la direzione di Ponente, quindi il detto "Ponenti
non faci nenti". "Consuetudini come queste erano numerose
e caratterizzavano la nostra cultura contadina di tanto tempo
fa, allorché la sopravvivenza era in stretta dipendenza
con l'andamento dei raccolti e questi a loro volta dipendenti
dalle vicende atmosferiche. Da qui scaturiva l'esigenza di una
previsione degli eventi metereologici dell'anno onde, non solo
regolare i comportamenti da un punto di vista strettamente pratico
ma anche a livello simbolico ricorrere a tutta una serie di
propiziazioni che se non garantivano, com'è ovvio, i
risultati, certamente offrivano un margine di tranquillità
che affiancava il mondo contadino così esposto ad avversità
di ogni genere e di diversa provenienza. Era una filosofia semplice,
tipica di una società semplice, ma omogenea e tale omogeneità
si rifletteva in un apparato ideologico non mediato che regolava
e ordinava il modo di vivere della società contadina".
(T. Giamba).
Con
l'inizio della novena di Natale ci si avviava al momento culminante
del nostro anno liturgico. Suoni mattinieri di zampogne e "pipite"
(cennamelle), nenie serali dal "sapore
antico" e animi sempre più lieti e sereni
contribuivano a rendere il clima incantato di quei momenti.
Tutti i nostri ragazzi mettevano giù lo scatolone che
per un anno intero aveva conservato amorevolmente le "belle
statuine". Si andava per le compagne per provvedere
ai ramoscelli di "morzida"
(mirto) e di "cucummarara"
(corbezzoli) e sempre dalla campagna grossi panieri pieni di
"lippi" (muschio) venivano portati spesso a
dorso di tanti ciuchini; infine ci si recava al vicino "Russettu"
per procurarsi una grande quantità di "purverinu"
(terra rossa), mentre batuffoli di cotone sarebbero serviti
per altrettanti fiocchetti di soffice neve. Tutto era pronto
per "u presebbiu",
come si amava chiamarlo. Di presepi erano piene tutte le nostre
case, vari "catoji" e veramente belli erano quelli
che si allestivano nelle chiese. Molto sentito era soprattutto
da parte dei ragazzi il bisogno di averne uno proprio, grande
o piccolo che fosse.
Certamente
anche a Caulonia, il presepe siciliano e in maggior misura quello
napoletano dovevano essere le matrici a cui ispirarsi. Il modello
siciliano si caratterizzava per i materiali usati: cera, legno
e stoffe preziose; in esso tutte le statuine andavano fiere
dei loro volti decisamente aristocratici. La macchina presepiale
napoletana doveva apparire molto complessa e naturalmente nella
"sacra grotta"
concentrava tutta la sua attenzione, anche se particolari cure
venivano prestate "all'annuncio
ai pastori", "al
corteo dei magi" e "alla
taverna". Sulla "sacra grotta" molto
consistente appariva il tripudio degli angeli in gloria e al
"capo-schiera" non poteva mancare il cartiglio con
su scritto "Gloria in excelsis
Deo et in terra pax hominibus bonae voluntatis".
La stella cometa faceva bella mostra di sé ed esercitava
ogni sua forza verso "u mmagatu
da stida", un pastorello con il volto dall'espressione
intensa ed estasiata per quanto stava per accadere.
Sempre
all'imbocco della grotta vi erano uno, due zampognari che con
le loro ciaramelle facevano da sottofondo ai vagiti del "Bambinello
Divino". "L'annuncio
ai pastori" vedeva il suo bel recinto con dentro
tante pecorelle e il loro ariete "u
muntuni", i pastori tutti pronti per partire verso
la santa greppia, ma continuava a dormire "u
bellu addormentatu", dal pregnante valore simbolico:
l'indifferenza per quanto sta per accadere (anche uno stato
laico si ricavava un suo piccolo spazio, come se con ciò
si volesse rappresentare una minoranza insensibile alla luce
divina; non dimentichiamo che le regole di questo tipo di presepe
si fissano nel settecento, il secolo dei lumi). Una seconda
interpretazione, a dire il vero, più suggestiva e più
delicata (vede la statuina, da collocare in alto nel presepe
e in posizione ben in vista), è quella del pastore che
dorme e sogna il suo bel presepe. Grande attenzione era rivolta
"al corteo dei magi",
che spesso era preceduto da un gruppo di suonatori con vesti
dalle fogge orientali: primo Baldassare con l'oro, poi Gasparre
con l'incenso e infine Melchiorre con la mirra arrivavano a
piedi, ma più spesso a dorso di cammello. Infine "la
taverna", non sempre presente, ma indispensabile
quando ci si ispirava al modello napoletano.
Al
suo interno prendevano posto l'oste e seduti ad un tavolo vari
giocatori. Certamente si giocava "a
stoppa" o meglio "a
patruni e sutta", gioco, una volta, molto diffuso
presso di noi, al quale Carlo Levi dedica un passo sicuramente
molto suggestivo: "la passatella
è il gioco più comune quaggiù: è
il gioco dei contadini. Nei giorni di festa, nelle lunghe sere
d'inverno, essi si trovano nelle grotte di vino, a giocarla.
Ma spesso finisce male . . ..La passatella, più che un
gioco, è un torneo di oratoria contadina, dove si sfogano
in interminabili giri di parole, tutti i rancori, gli odi, le
rivendicazioni represse. Con una partita breve di carte si determina
un vincitore, che è il Re della passatella, e un suo
aiutante. Il Re è il padrone della bottiglia, che tutti
hanno pagato; e riempie i bicchieri a questo o a quello, secondo
il suo arbitrio, lasciando a bocca asciutta chi gli pare. L'aiutante
offre i bicchieri, ed ha diritto di veto: può cioè
impedire a chi si appresta a bere di portare il bicchiere alle
labbra. Sia il Re che l'aiutante debbono giustificare il loro
volere e il loro veto, e lo fanno, in contraddittorio, con lunghi
discorsi, dove si alternano l'ironia e le passioni represse.
Qualche volta il gioco è innocente e si limita allo scherzo
di far bere tutto ad uno solo, che sopporta male il vino o di
lasciare a secco (all'urmu n.d.r.) proprio quello che si sa
amarlo di più. Ma il più delle volte, nelle ragioni
addotte dal Re e dall'aiutante, si rivelano gli odi e gli interessi,
espressi con la lentezza, l'astuzia, la diffidenza e la profonda
convinzione dei contadini. Le passatelle e le bottiglie si seguono
una all'altra, per delle ore, finché i visi sono accesi
per il vino, per il caldo, e per il destarsi delle passioni,
aguzzate dall'ironia e appesantite dall'ubriachezza. Se ancora
non scoppia la lite, è in tutti l'amarezza delle cose
dette, degli affronti subiti".
<< Parte terza
Parte
quinta >>
U
sei i Nicola, l'ottu i Maria... U vinticincu lu bellu Missia;
ovvero
La
grande attesa per il Natale cauloniese.
di
Gustavo Cannizzaro
www.caulonia2000.it
- Marzo 2002
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