Questa sezione raccoglie scritti, articoli, storie, usi e costumi
della tradizione cauloniese

           
     

  

     
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Si! le ultime farine erano quelle utilizzate per i pani benedetti e sicuramente, se la farina di grano duro non fosse stata sufficiente, si ricorreva all’aggiunta della farina di “majorca” (quest’ultima ricavata da un tipo di grano tenero ottenuto da un particolare seme, che si sviluppava in una pianta piuttosto nana, la cui spiga veniva da noi chiamata “muzza”, monca, perché priva di “brucjalora”, aresta, la chioma folta caratterizzante la spiga di grano “a cappella”; farina, quella majorca, idonea per i dolci ed anche a rendere il pane più friabile). Il lavoro per la panificazione iniziava la sera precedente, quando in una “limba” (recipiente di creta smaltata, molto capace e a larga imboccatura, come una sorta di conca) si lavorava il “lavatu” con un paio di chili di farina e con acqua senza sale, che, dopo averlo coperto, si lasciava l’intera notte per farlo fermentare, in modo che la mattina successiva fosse pronto. Il “lavatu”, lievito, veniva tolto dal “lavataru” (simpatico vaso smaltato che nello “skjphos” greco ad un ansa trovava il suo prototipo). Veniva coperto con una larga foglia di vite o di fico o di cavolo (secondo la stagione) e importante era il suo utilizzo prima dell’avvento del lievito di birra.


Via Regina Margherita
Si era soliti chiedere il “lavatu” alla vicina di casa, alla comare, e ciò favoriva, ancora una volta, quei rapporti sociali che da sempre hanno caratterizzato la vita semplice di un tempo (con i vicini di casa o si è “nenti” o “cchjiù di parenti”, perché nella “ruga”, vicinato, o si faceva vita comune molto intensa oppure, se divisi da rancore, non ci si guardava in faccia). Sacra era l’attenzione prestata al “lavatu”, perché esso, secondo una nostra leggenda, traeva origine da quello fatto per la prima volta dalla stessa Madre di Dio e per questo motivo Sabato Santo, quando le campane esplodevano nel suono della “gloria”, impastando farina con acqua e pronunciando l’espressione “groglia sonandu e lavatu allevitandu” se ne otteneva uno nuovo.
Si narra che Santa Anna impastava la farina per fare il pane e mentre era intenta in tale occupazione, Maria Bambina, sua figlia, prese senza essere vista un po’ di quell’impasto, nascondendolo sotto un’ascella. In tal modo, la pasta rimanendo al caldo, divenne acida e si gonfiò dando al pane, una volta utilizzato nell’impasto, maggiore volume e più sapore rispetto a quello azimo. Così nacque il primo “lavatu”.


Via Regina Margherita (u macellu)


Probabilmente tra i primi a fare uso del lievito per ottener un processo di fermentazione furono gli antichi egizi, che fin dall’anno 2000 a. C. utilizzarono forni per la cottura, avendo casualmente scoperto il lievito. Secondo una leggenda era auspicabile scegliere il Venerdì quale giorno propizio per una buona panificazione. Da qui il detto:

" Maladitta chida trizza
chi di venneri si ‘ntrizza;
benaditta chida pasta
 
chi di venneri si ‘mpasta".

Si narra che Gesù durante un venerdì, giunto in un villaggio, avesse chiesto un' informazione ad una donna, intenta a farsi bella intrecciando i suoi bei capelli, e che la stessa, in modo sgarbato, alzando una gamba diede l’indicazione richiesta. Sempre di venerdì Gesù raggiunse un altro villaggio dove chiese ancora una volta ad una signora, occupata ad impastare della farina per fare il pane, un’indicazione. Pare che la pia donna abbia risposto con tutto il garbo e l’amore che la distingueva. Da qui la benedizione della panificazione del venerdì. All’alba il tutto veniva collocato all’interno della madia. Era quest’ultima un simpatico utensile ricavato da un unico blocco di legno (si preferiva, per tale scopo, l’uso di un tronco di “agghjiastru”, olivo selvatico, o meglio di quercia, perché legni duri e molto resistenti). La madia presso di noi, nota con il nome di “majida”, era costituita da una parte concava, incavata e da due ripiani laterali sporgenti detti “schjianaturi” o “maguli” (piccole guance). Ciascuna di queste parti rispondeva ad una particolare funzione nell’arte dell’impastare. La farina con acqua, sale e il lievito preparato, già dalla sera precedente, messi nella parte concava della madia, venivano lavorati a forza di pugni, aggiungendo, per fare amalgamare meglio l’impasto, a piccole dosi, l’acqua: Questo particolare momento del lavoro prendeva nome “lima” e con i pollici verso il basso si praticavano profondi “fossetti” (buchi) in modo che l’acqua penetrasse con efficacia all’interno dell’impasto.


Olpe greca

 

 


Forno di Elisa Mileca

Tale operazione cessava quando tutta l’acqua contenuta in un vaso panciuto di creta smaltata (una sorta di caraffa assimilabile all’olpe greca) veniva assorbita dalla farina. Quindi una porzione del nostro impasto passava su uno dei due “maguli” o “schjianaturi” e qui la pasta veniva “schjianata”, ulteriormente lavorata facendola ruotare su se stessa, imprimendo spinte verso l’alto assumendo infine la stessa la forma di un pane, che, così formato, veniva messo a letto per la lievitazione; non prima di aver operato piccoli tagli, atti a bloccare un eccessivo gonfiore, e a segnarlo poi con la croce, quasi a voler invocare su ogni pane la benedizione divina. Quando il faticoso lavoro dell’impasto aveva termine, una piccola porzione di esso, il “panetto”, veniva tolta per farla fermentare e dare così inizio ad un nuovo lievito. Quest’ultimo era pronto per l’uso da parte di una nuova brava massaia, perché “pani e lavatu si rendi ammiglioratu” e portandolo fuori, all’aperto, si stava accorti a non scoprirlo alla luce delle stelle, altrimenti esso perdeva tutto il suo miracoloso potere. A questo punto si era solo a metà del lavoro, perché subito dopo iniziava la delicata fase della preparazione del forno. Anche i più piccoli, a loro modo, prendevano parte a tale rito, ora andando a prendere il “lavatu”, ora facendosi dare piccole porzioni d’impasto con le quali giocavano a formare i loro piccoli pani, i cosiddetti “cuduredi”.
Essi con la loro ingenua allegria contribuivano a rendere serena l’atmosfera che si veniva a creare in quel momento di dura e nel contempo piacevole fatica. Il forno attirava ogni attenzione e nella sua bocca si accendevano le frasche o piccoli legni (quest’ultimi si procuravano qualche giorno prima direttamente nelle campagne circostanti o si compravano dalle donne che venivano dalla montagna. Le campagnole, “forisi”, scendevano al paese con le loro fascine e per pochi soldi, ma spesso barattando con svariati prodotti, si liberavano del loro peso). Di solito il fuoco veniva acceso al centro del forno, poi con un palo, “attizzaturi”, lo si faceva girare su tutti i lati e, quando le pareti assumevano un particolare colore bianco, era segno che fosse giunto il momento d’infornare il pane già lievitato.

Con il “tiraturi”, rastrello (adatto per tale compito), si portava la brace e la cenere su “u gangularu du furnu”, (mensola antistante), dove solo in parte veniva lasciata, perchè tutto il rimanente andava a finire nel “focularu” (parte sottostante il forno). Con la pala s’infornavano i vari pani e, se bisognava stemperare l’alta temperatura, si faceva uso del “cadipu” (paletto munito di una pezza umida, atta a rimuovere la cenere). Il tutto veniva chiuso con un coperchio in ferro, detto “cummogghjiu”. Il “cadipu” con il “tiraturi,l’attizzaturi” e la ” pala” completavano l’arredo di ogni buon forno. Tutti questi arnesi si ricavavano dall’”amidearu”, frassino, legno duro idoneo per tale scopo. I vari pani e qualche panino, (cudureda), fatto per la gioia dei più piccoli, occupavano l’intero vano, mentre in prossimità dell’imboccatura veniva collocata la “pitta”, schiacciata, che serviva a verificare in anticipo l’andamento della cottura. Il tutto vi rimaneva per più di un paio di ore. Infine una fragranza di pane riempiva di se tutta la casa e la brava massaia si sentiva appagata di ogni dura fatica.

"Simina quando voi ca a giugnu meti"

"A giugnu  ndi vidimu pellegrinu,
cu zappa fundu e cui simina chjianu
"


Panorama Caulonia Superiore

Sempre in prossimità del tredici giugno, anche le messi toccavano il momento culminante della loro maturazione e tutto era pronto per la mietitura. Il grano seminato il precedente autunno e germogliato in prossimità della primavera, dopo la quiete invernale, ai primi di giugno si presentava in tutto il suo splendore di spiga matura. Era una meraviglia vedere i campi somiglianti ad un mare d’oro trapunto da qualche papavero rosso, “paparina. Ancora una volta il miracolo si era compiuto, la terra ripagava il nostro contadino di ogni sua fatica. Tutto andava bene quando anche il tempo faceva la sua parte,  rispondendo alle attese di  ogni “bonu massaru”:

“Marzu chjiovi, chjiovi
aprili mai mu fini
a majiu na bon’acqua
e la stagioni è fatta"

Nelle campagne il silenzio regnava sovrano e di tanto in tanto si alzava un battere di mani, di pentole e di qualche tocca (raganella), o meglio, il grido di qualche contadinello per allontanare i volatili dalle spighe bionde. Si iniziava dalle prime ore dell’alba, ”u massaru” con la “farcia” (falce) grande, dopo essersi munito di “cannoli”, ditali di canna, per difendere le sue dita da qualche colpo maldestro e una volta indossato un grembiule di pelle di capra conciata, forte del suo prestigio con atto veramente superbo dava l’avvio alla mietitura. I giovani contadini adoperavano invece “u farcigghjiu” (falcetto), da noi chiamato “muzzuni”, e non avevano bisogno di inanellare le loro dita con i “cannedi”. Dall’uso di questa originale protezione, per evidenziare la poca attitudine al lavoro in genere, si amava usare la simpatica espressione: “o malu metituri ‘nci mpaccianu i cannedi”.

I “cannizzola du ranu” con relativa “reschjia” (gambo e aresta) cadevano recisi sul campo e subito, dietro gli uomini, le spigolatrici passavano alla raccolta e alla fase della “ligatura”. Raccolte circa cento spighe, le stesse venivano legate con steli di altre spighe, formando così le “gregne”. Falciate le messi, al terreno rimaneva salda la “ristuccia”, stoppie, alta circa quindici centimetri, che, finchè era tenera serviva anche da pascolo. Le “gregne” aumentavano sempre di più e, quando raggiungevano il numero di circa trenta fasci, venivano raggruppate a formare “u cavaghiuni”, che rimaneva sul terreno per circa dieci giorni ad asciugare all’aria aperta e ai raggi del sole. Si aveva cura nel formare i “cavaghiuni” di seguire una tecnica ormai collaudata fin da tempi molto remoti. Si collocavano tre “gregne” a mo’ di piramide e poi si continuava tutt’intorno.


Via Vallone

Trascorso il tempo necessario per asciugare il frumento mietuto, si provvedeva al suo trasporto verso il luogo idoneo per la fase successiva. Le spighe venivano sistemate nel lenzuolo delle gregne (quest’ultimo tessuto nell’ordito e nella trama con la fibra ricavata dalle ginestre). Il frumento veniva così trasportato in testa dalle donne.  Per il trasporto si usavano anche gli asini, sulle cui “nache” venivano caricate circa otto “gregne”. La “naca” era formata da due assi messi in posizione orizzontale e paralleli tra loro, tenuti insieme da virgulti di “salicu”, salice, o di “laganaru” (cespuglio dalle foglie lanceolate e con infiorescenza celeste adatto alla costruzione delle cofane) a mo’ di cinghie di culla, dal cui nome deriva la nostra “naca”.

Naturalmente i massari più facoltosi si servivano di un carro trainato da buoi per trasferire tutte le “gregne” sull’ ”aria”, dove l’insieme dei cavajuni” venivano raccolti dando origine alla “timogna”. Essa poteva contenere circa venti “tumani”, tomoli, corrispondenti a dieci quintali di grano. Formata la “timogna” si provvedeva subito a fissarla meglio puntellandola con otto, dieci canne che avevano il compito di difenderla da eventuali raffiche di forte vento.



Mare di Roccella Jonica

Di solito si era in prossimità o subito dopo la prima domenica di luglio, quando nel mare di Roccella culminavano i festeggiamenti in onore della Madonna delle Grazie e tutto era pronto per menare per aria, “girare all’aria” il grano mietuto.

Si passava, quindi, a quella fase che più tardi, con l’avvento di macchine agricole, venne chiamata trebbiatura. Si era già provveduto a munire i buoi di nuovi ferri, atti ad essere più efficienti nel tagliuzzare le spighe. I buoi, accoppiati a formare “u parigghjiu” , venivano collocati sotto il giogo (juvu) e, legati ad esso con il “pàjiaru”, erano pronti per tale operazione. Sempre dal giogo partiva una grossa catena di circa due metri, legata tramite una sorta di bitta ad una pietra, “a petra i l’aria”, del peso di circa trenta, quaranta chili e, di forma quadrangolare (si evitava la forma circolare per non farla rotolare e recare qualche danno al “parigghjiu” dei buoi). Tutto era pronto, solo il vento doveva fare la sua parte; certamente le giornate di scirocco rendevano tristi tutti i nostri contadini e quindi bisognava attendere il momento propizio.

L’esperienza insegnava che la settimana del vento era quella che vedeva i preparativi per la festa in onore della Madonna del Carmelo (la terza settimana di luglio) e si faceva di tutto per rendersi disponibili per quella data. Il contadino più abile e più forte teneva in mano il forcone o meglio “a tridenta” (il tridente, questo importante attrezzo veniva ricavato dal legno di “amidearu” o di “agghjiastru”, ma poteva essere anche in ferro, nel qual caso nell’usarlo bisognava avere molta cautela per non arrecare qualche danno ai buoi. I nostri contadini, avevano acquisito fin dall’antichità  l’amore verso tutti gli animali domestici ed in particolare verso i buoi, per i quali avevano saputo sviluppare un forte senso di familiarità, tanto da chiamarli per nome e così il richiamo di “Galanu”, “Hjiuredu”, “Baggianu”, “Capurali”, “Mercuredu”, “Sabbatinu” e se femmina “Bandera”, “Palumba”, “Joculana” echeggiava per le campagne.


Panorama Caulonia Superiore
Magico era il legame che si era venuto ad instaurare, soprattutto perché il contadino, erede di antica saggezza, sapeva rispettarlo, facendo si ché oggi, in periodo di “mucca pazza”, tutto ciò serva di monito e di riflessione.  Non a caso, lo stesso Mons. Giancarlo Bregantini, Vescovo di Locri, interviene su questo “dramma” quale “frutto tragico di scelte economiche impazzite, dove il profitto è il solo criterio di scelta”. I buoi si muovevano con lento passo, trascinando la pesante pietra per tagliuzzare tutto il frumento sparso sull’area. Talvolta uno dei due animali, evidenziando maggiore vigore, accelerava la sua andatura; in quest’ultimo caso si provvedeva ad aggiogarlo in maniera più forte, che nel dialetto era reso con  l’espressione “stringi u cornali i stu voi”.
Quando ogni spiga era spezzettata, tagliuzzata e quasi triturata si dava inizio alla fase del “palijiari” (spalare). I contadini più abili con “tridenta” grande o piccola, o meglio ancora con “a pala i l’aria” buttavano il tutto in alto e controvento. Si faceva in modo che i chicchi più pesanti, cadessero all’indietro, mentre la paglia e le parti più leggere, dette “pinne”, volavano più lontano, ma non troppo perché anch’esse venivano riciclate. Il tutto era regolato dal vento: se esso cessava bisognava attendere, se aumentava d’intensità si sospendeva perché l’intero raccolto poteva essere spazzato via. Tutto procedeva con una certa lena e al duro lavoro il giovane contadino si spronava gridando parole esortatrici “volu, volando giuvani schjietti e fimmini abbasandu”.

Rudere del Monastero di Santa Maria di Prima Luce
Trascorrevano così la settimana delle Grazie, della Sacra Famiglia e del Carmine per arrivare alla fine di luglio e ai primi di agosto. Si era proprio sotto il sol leone quando iniziava l’ultima fase di tutta l’intera stagione cerealicola ed entrava di scena il “gramone”, una sorta di setaccio. Era quest’ultimo un utensile a forma circolare, con bordo alto circa quindici centimetri, ricavato dal castagno selvatico, adatto a renderlo flessibile, e fondo di latta piuttosto robusta, tutta bucherellata.
Il “gramone” tramite un anello (biccola) era fissato al dente di una “tridenta”; quest’ultima collocata in uno scarpone per evitare di scalfire la compattezza del suolo.

L’oscillazione del “gramone” serviva a separare i chicchi di grano da ulteriori pagliuzze, dette “gruppi”. Le impurità rimanevano sul fondo di latta, mentre tutto il grano duro fuorusciva dai tanti buchi e andava a depositarsi sul “lanzolu du ranu”. Era tutto frutto benedetto da Dio, come diceva ogni buon viandante, che, per caso, si trovava a passare nei pressi di un’aia “Diu mu vu benedici”. Il lavoro finiva quando tutto il raccolto veniva pesato e misurato con contenitori di legno corrispondenti alle unità di misura proprie della gente del Sud prima dell’unità d’Italia. “U menzu-stuppedu” era il contenitore più piccolo e il suo doppio era, appunto, “u stuppedu”, corrispondente a sei chilogrammi; poi si avevano le misure più grandi: “u quartu” (docici-tredici chilogrammi), “a menzalora” (ventiquattro chilogrammi e mezzo) e due “menzalori” facevano “u tùmanu” (tomolo), cinquanta chili (quest’ultimo era solo una misura virtuale, infatti non esisteva il contenitore corrispondente). Il grano raccolto e misurato veniva trasportato a casa per essere conservato in un “cannizzedu”, una specie di cofana. Da qui veniva tolto, secondo le necessità con “a menzalora” e collocato su un tavolo, dove l’attendeva l’”accoccitura”. Tutti i componenti la famiglia, riuniti intorno al mucchietto di grano, provvedevano a mondarlo dalle ultime impurità (qualche sassolino, semi di oglio, semi di erbe selvatiche e ultimi fuscelli) e così, chicco per chicco, “cocciu pe cocciu” passava al vaglio ed era pronto per essere portato al mulino dove si ottenevano le prime farine . . .

 


Il sacro e il profano nel giugno cauloniese
di Gustavo Cannizzaro

www.caulonia2000.it - Maggio 2001



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