Anche
in giugno ricorreva il rito noto presso di noi come “u jovi
i l’artaretti”, che altro non era se non l’ottava della festa
del Corpus Domini. Esso cadeva, appunto, in prossimità dell’estate,
ma con data mobile, perché, come altre solennità, dipendeva dalla
luna di marzo. Infatti dal primo plenilunio dopo l’equinozio di
primavera si fissa, ancora oggi, il Venerdì Santo e di conseguenza
il giorno per la Domenica di Pasqua, l’Ascensione, la Domenica
di Pentecoste, il Giovedì (oggi sostituito dalla domenica) del
Corpus Domini, quindi l’intero ottavario. Tale ricorrenza era
un giorno di particolare fermento per tutti i fedeli di Caulonia.
La
processione si muoveva nel tardo pomeriggio dalla Chiesa del S.S.
Rosario.
Chiesa
del S.S. Rosario
Processione
del Corpus Domini
Numerosi
erano i fratelli dell’Arciconfraternita che vi partecipavano,
ad essi si univano “i virginedi”, le ragazze che da poco
si erano accostate per la prima volta al sacramento della Comunione
e per tale motivo indossavano i loro abiti di veli e di candide
organze.
Le giovani adolescenti tenevano un grazioso canestro con dentro
tanti petali di fiori con cui, a larghe mani, provvedevano a cospargere
tutta la strada. Tutto il clero, indossando i piviali più preziosi
intessuti con fili d’oro, si alternava a portare l’Ostensorio
con il Santissimo.
Quest’ultimo
procedeva solennemente sotto l’ombrello e il palio sorretti sempre
da persona di cosiddetta alta dignità morale e sociale; ma erano
i drappi più fini, le sete più preziose, i damaschi più elaborati
che durante quel giorno facevano da padrone in tutte le vie del
nostro centro storico. Ogni balcone, spalancato, sfoggiava il
miglior tessuto per onorare il passaggio dell’Ostia Consacrata.
La
tradizione spingeva tutta la nostra gente ad allestire nei vari
slarghi, in ogni “ruga”, in tutti i punti più scenografici
di Caulonia per culminare in piazza Mese, bellissimi “altaretti”
con le trapunte più belle, i lini più pregiati e i copriletto
dai colori vivaci, che addobbavano le improvvisate cappelle a
cielo aperto.
Arula
Tale pratica religiosa troverebbe analogie con riti delle nostre
più antiche civiltà. Si sa che presso gli abitanti della Kaulonìa
greca diffuso era l’uso dell’arula, altarino in terracotta. Infatti
presso i nostri antenati le piccole are erano destinate alle cerimonie
private, familiari, di esigui gruppi e su esse i cauloniati facevano
le loro pratiche di culto. Le arule avevano una forma parallelepipeda
e sul loro piano erano deposte le offerte votive o venivano versate
le libagioni ed erano istoriate a matrice sulla faccia principale,
più spesso con animali in lotta.
In
tempi più vicini a noi, e ancora oggi lo è per qualcuno, era diffusa
la consuetudine di innalzare piccole are con su la Madonnina di
maggio, la statuina di Sant’Antonio o quella del Sacro Cuore di
Gesù (quest’ultima per tutto il periodo di giugno).
Davanti
a questi “altarini”, a sera, i componenti la famiglia, se non
tutte le vicine di casa, si stringevano nella recita del Santo
Rosario. Ma era nel giovedì degli altaretti che tale tipo di culto,
privato e nel contempo pubblico, trovava la sua massima espressione.
Fin dal primo pomeriggio tutte le nostre donne facevano a gara
a tirare fuori dai vari settimini o meglio dalla cassa della nonna
il copriletto meglio tessuto. Con fiero orgoglio ogni donna metteva
in mostra i propri lavori, perché anche presso le giovani di Caulonia
era costumanza tessere al telaio i lini più delicati con il cotone
più resistente. Ogni ragazza da marito, chi più chi meno, aveva
conosciuto quest’arte veramente antica. Fin dagli anni della sua
adolescenza aveva fatto il suo apprendistato presso qualche brava
“majistra i tilaru”, e accompagnando sovente il lavoro
con versi suggestivi:
“Giuvani
bellu, galanti e cortisi
chi ti promisi ti vorrai dunari.
Eu ti promisi nu jancu muccaturi
e cu fili d’oru l’aju a riccamari.
Tuttu ‘ntornu ‘nci mentu l’amuri
E’ nta lu menzu l’aquila riali”
Pare
che anche presso le nostre giovani donne ci fosse la consuetudine
di ricevere, da parte dei loro promessi sposi, un dono dall’alto
valore simbolico: il “fuso” e la “navetta”. Probabilmente, con
tale gesto, il giovane pretendente voleva fin da subito chiarire
il ruolo futuro della giovane prescelta, che era legato alla procreazione
e ai lavori prettamente femminili, quale, appunto, quello del
tessere.
Donna
che fila la lana con il "fuso"
A
tal proposito eloquenti sono l’espressione “vaji comu na novetta”
e la filastrocca:
“Donna
fila, fila la lana
e filala ‘bbona
e si ‘nno ogni gruppu
o pettinu arriva”
Con
esse si evidenzia oltre alla solerzia verso tutto il mondo del
lavoro, un monito verso ogni moglie a svolgere il proprio ruolo
con cura e diligenza. Sempre al “fuso” era legata la breve tiritera,
che i nostri ragazzi ripetevano a mo’ di cantilena, spesso senza
cogliere il suo significato più triviale:
“quando
mammita cala u fusu
lavi apertu o lavi chjiusu ?
e ’ppe non perdiri l’usu
menzu apertu e menzu chjiusu!”
Si!
quelli erano anni in cui la giovane donna attendeva a tessere
la propria dote e numerosi erano i “ tilari” che facevano
bella mostra di se nei vari scantinati:
“A
donna tessi, tessi
mina na ‘bbotta e ‘ssi ‘nda nesci
e ‘ssi a tila ‘on vaji ‘bbona
è mancanza da pedalora!”
Il
telaio era un attrezzo semplice e complesso nel contempo, in gran
parte costruito in legno duro, di preferenza in noce, e soprattutto
per farlo funzionare bene si doveva usare con la massima precisione,
perché “u tilaru ‘ndavi u vaji a filu i capidu”.
Tilaru
Esso
era una sorta di grande gabbia formata da diversi assi in legno,
“stamigni” e “sdanghe”. “I stamigni” si
sviluppavano in linea orizzontale ed erano sorretti dalle “sdanghe”,
assi in posizione verticale. I primi, che stavano in alto sorreggevano
“a càssita”, su cui veniva a trovarsi il pettine e l’asse,
sul quale insistevano, sorretti da “tumbaredi” e “canne”,
“i lizzi” (licci), elementi quest’ultimi che servivano
ad alzare e abbassare alternativamente i fili dell’ordito. Gli
altri componenti di questa macchina fantastica erano: “a sedalora”,
il sedile, a dire il vero, non molto comodo anche perché così
si favoriva la posizione tesa delle gambe della tessitrice; la
ruota dentellata che faceva girare il subiello, l’asse cilindrico
su cui si avvolgeva la tela; e la “pedalora”, tastiera,
di una certa dimensione, azionata con i piedi e collegata ai “lizzi”.
Altrettanto
complessa e piuttosto faticosa si presentava l’intera fase della
tessitura, che si divideva in due momenti: il primo vedeva la
preparazione del filato dell’ordito e della trama che attraverso
la “cannalora”, “u matassaru”, “a lurditura”
e “u manganedu” trovava i momenti più salienti, mentre
il secondo vedeva come protagonista il telaio. Si riempivano i
“cannoli” (lunghi rocchetti di canna di circa venticinque
centimetri) con filato di cotone o lino, quindi si collocavano
i filati, così avvolti, nei vari assi di ferro della “cannalora”,
attrezzo atto a contenere tutti i rocchetti e a farli ruotare
contemporaneamente. La “majistra i lurditura” (quest’ultima
vera esperta in tutte le fasi di questa nobilissima arte) prendeva
nelle sue mani la cima di ogni filato e dopo averla annodata la
faceva scorrere, dando inizio alla fase della “lurditura”.
Essa consisteva nel far passare tutti i filati attraverso percorsi
obbligati, determinati da serie simmetriche di enormi chiodi infissi
nella parete. L’insieme di tutti i fili andava da un chiodo ad
un altro a ‘mo di lunga serpentina. Una volta collocato tutto
il filato, sempre l’abile maestra lo raccoglieva per ricavare
un enorme gomitolo. Infine si ricorreva al telaio con la fase
conosciuta come “a sugghjitura” (la collocazione dell’ordito
sul telaio). L’ordito con grande perizia veniva srotolato dal
grosso gomitolo e si avvolgeva al “sugghjiu” (subbio);
quindi ben teso, passando attraverso i “lizzi” e i denti
del pettine della “càssita” raggiungeva il “sugghjiu”
più in basso (subiello). Quest’ultimo aveva il compito di avvolgere
la tela (prodotta dall’intreccio dell’ordito con la trama). La
trama era il filato che attraversava l’ordito in senso orizzontale
grazie alla “novetta” (navetta) con dentro la spoletta
con il filo raccolto. Meno faticosa e, a dire il vero, non molto
difficile era l’operazione atta a ricavare il filato della trama,
che poteva essere di lino, di cotone e, se si voleva uno più prezioso,
di seta. Il filato con il “matassaro”, (canna lunga circa
settanta centimetri e con due pioli sporgenti fuori) si trasformava
in matassa, che veniva collocata sul “nimuledu” (arcolaio).
Tilaru
Il
capo del suo filo era avvolto in una spoletta di circa dieci centimetri,
da noi definita “canneda”, perché si ricavava da canne
piuttosto esili. La nostra spoletta veniva inserita ad un perno
del “manganedu” (aspo, arnese formato da una grande ruota
di legno che serviva ad incannare il filo sopra i cannelli). A
questo punto tutto era pronto a dare inizio al movimento di oscillazione
che portava il pettine a colpire sonoramente una verga e il filato
avvolto al subiello, dando così inizio alla tessitura. Si poneva
molta attenzione a far si che il colpo fosse secco e deciso, onde
evitare imperfezioni della tela, il cosiddetto “corno”.
Per scansare tale inconveniente si usava collocare alle sue estremità
due pesi, atti a mantenere il tessuto ben tirato. Già all’inizio,
i risultati ottenuti dal lavoro delle nostre operose tessitrici
apparivano straordinari. Di solito a marzo iniziava la stagione
propizia per tale occupazione, perché con l’avvento della primavera
la luce del giorno si prolungava sensibilmente, consentendo di
andare avanti fino a tutto giugno; quando il caldo rendeva difficile
una tale fatica.
Per
giugno i nuovi tessuti erano già pronti ad essere messi in bella
vista al passaggio del corteo del Corpus Domini.
Varie
erano le combinazioni che si ricavavano dall’intreccio dei filati
e ogni disegno aveva un proprio nome: “spina i pisci”,
una sorta di linea spezzata; “principessina”, che alternava
una parte di tela a fondo unito ad un’altra lavorata a scacchiera;
“occhi i granunchjiu”, consistenti in due rombi, uno interno
all’altro e lavorato a rilievo; “schjioccheri”, destinato
per le tovaglie da tavola; “quadruni” e “a stella”
entrambi molto adatti per le coperte; “u piparedu”, disegni
destinati al tovagliato in genere; “a ’rrajia”, “a ‘ffibbia”;
“u mattuni”; “a milanesi”; “seggiasgudata”
assimilabile ad una greca stilizzata; “u cielu stidatu”;
un tessuto veramente bello era, inoltre, “a rosa ‘ncurunata”,
il cui effetto era quello di un fiore sempre stilizzato ed incorniciato
da linee geometriche; ed infine, un’ intreccio che richiedeva
una grande abilità, frutto di alta esperienza, era conosciuto
con il nome “undici lizzi”, che si lavorava con undici
“lizzi” nei fili d’ordito e di conseguenza, con un egual
numero di pedalini della “pedalora”.
L’effetto che ne derivava era veramente straordinario, infatti
sulla tela si vedeva sbocciare un meraviglioso fiore a stella
di Natale.
Disegni, tutti, che nelle forme geometriche, o meglio nella composizione
di linee intricate, trovavano le loro matrici.
Da
una attenta osservazione di tutti questi filati abilmente intessuti
emerge tutta la nostra cultura figurativa, cosiddetta delle arti
minori. Cultura, questa, più che millenaria che dal mondo greco
(geometrico) traeva origine e che nell’età bizantina (motivi vegetali
e zoomorfi), nelle civiltà islamiche (arabeschi) e ancora in quelle
iberiche (estofados) toccava i punti più alti.
Particolare
del Cristo (Affresco bizantino)
Sarcofago
del mausoleo Carafa (Chiesa Matrice)
Altare
minore della Chiesa Matrice
Organo
della Chiesa Matrice
Tanti
disegni fioriti dai nostri telai trovavano i loro spunti ispiratori
e nel drappo chiaro, solcato da bende decorate a motivi vegetali
che si adagia suntuosamente sul trono su cui si staglia la ieratica
figura del Cristo Benedicente dell’affresco bizantino di San Zaccaria;
e nelle raffinate decorazioni dei tre pannelli sovrastanti il
sarcofago del mausoleo Carafa della Chiesa Matrice, che potrebbero
fungere da veri prototipi per tanti disegni, che rendono veramente
belle e affascinanti le nostre coperte e le eleganti tovaglie
di lino; e nei motivi floreali del leggiadro cuscino su cui poggia
la testa della giovane donna, scolpita a rilievo sul coperchio
di un sarcofago del sedicesimo secolo e conservato nella Chiesa
del S.S. Rosario, in cui possiamo cogliere i tanti fiorellini
stilizzati delle trapunte delle nostre nonne; e nell’elaborata
composizione di marmi mischi adornanti la balaustra dell’altare
maggiore della Chiesa del Carmine o il paliotto del settecentesco
altare conservato in Santa Maria dei Minniti, che probabilmente
avranno contribuito a raffinare ulteriormente i gusti di tante
abili maestre di telaio; ed infine nelle ghirlande di fiori di
squisito gusto rococò, che ancora ornano la cimasa e le lesene
lignee dell’organo del 1762, ora in deplorevole stato di abbandono
nella Chiesa Matrice, che sicuramente avranno deliziato gli occhi
di tante spose, tanto da indurle a riproporre simili delicatezze
su federe, tovaglioli e vari capi di biancheria per toletta; lavorati
tutti al telaio con il fresco lino.
Si!
anche se è vero che tutti questi nostri manufatti tessili vanno
classificati come prodotti di un’arte minore, o meglio di arti
applicate, non bisogna sottovalutare la qualità altamente eccellente
dei risultati finali.
Quando
giugno volgeva ormai al termine, un altro rito riempiva di se
l’intera sua ultima decade. Questo era conosciuto come “i hjiuri i San Gianni”,
ovvero “u
cumparatu di hjiuri”. Esso consisteva in un originale rapporto di “commarato” tra ragazze nubili. Negli ultimi tempi tale rito è caduto in disuso tanto
che pare che sia scomparso. Di tale cerimonia presso le giovanissime
generazioni rimangono tracce molto scarse; quindi si avverte sempre
più la necessità di conservare la memoria con una dettagliata
descrizione. Teresa Giamba, con un lavoro non pubblicato, ne fa
una particolare esposizione descrivendo il rito seguito presso
la frazione San Nicola di Caulonia, il cui protocollo sicuramente
non differiva da quello seguito da tutta la gente di Caulonia.
In esso così si legge: «pratica, quella di hjiuri
i San Gianni, ormai in disuso che fino a circa trent’anni fa era largamente diffusa tra
le ragazze e scaturiva in genere da un moto di simpatia. Era l’occasione
per creare, rinsaldare rapporti affettivi di amicizia e di rispetto
reciproco; cosa d’altra parte pressoché impossibile nei normali
rapporti quotidiani. La cerimonialità garantiva la durata nel
tempo del rapporto; spesso il “sangiovanni” veniva ulteriormente
consolidato con il tenere a battesimo gli eventuali rispettivi
figli.
Donne
che filano la lana con il "fuso"
La ritualità del “sangiovanni dei fiori” aveva durata triennale e si svolgeva
nella maniera seguente: La “commare” che prendeva l’iniziativa,
il giorno di San Giovanni (24 giugno), previo avviso per conoscere
la disponibilità dell’altra contraente e della rispettiva famiglia,
si recava in visita con tutta (la rispettiva) famiglia (per l’occasione
la comare ospitante preparava un ricco banchetto) presso la comare
prescelta portando un fiore (simbolo del rapporto che si creava)
fatto a mano con carta crespa somigliante a quello che era nelle
mani della statua di San Giovanni. In un cestino addobbato con
petali di fiori si portavano i regali (indumenti in genere). All’arrivo
si recitava la seguente formula:
Iª
comare: “Buongiorno cummari” IIª
comare: “Buongiorno
cummari”
Iª
comare: “Pigghjiativi
sti hjiuri
a
nomi di San Gianni
e tenitili cari.
Si vui non l’aggraditi
Signu
è ca non m’amati”
IIª
comare: “Eu
cummari mi li pigghjiu
e mi l’abbrazzu
e su pe ‘mmia tantu aggraditi"
Il
giorno di San Pietro e Paolo (29 giugno) veniva restituita la
visita con la stessa ritualità. Tutto
questo veniva ripetuto per tre anni; allo scadere dei tre anni
i fiori di carta si portavano in chiesa e venivano deposti ai
piedi della statua di San Giovanni, il giorno della sua festa.
Rifiutare
un “sangiovanni dei fiori”, oltre che una grave mancanza di rispetto,
un’offesa, veniva considerato peccato. Questo rapporto anche quando
non veniva rafforzato da ulteriori comparati durava nel tempo
anche tra le generazioni successive.
Nella
frazione di San Nicola, fino a circa quarant’anni fa, la festa
di San Giovanni era tenuta in grande considerazione; inoltre nella
cultura popolare locale era considerata la festa dei giovani.
La statua veniva portata in processione da giovanotti particolarmente
curati “addirizzati” perché lo stuolo che seguiva il simulacro
era costituito soprattutto da ragazzi. Spesso in quella circostanza
si puntava l’occhio sull’eventuale fidanzata. Nell’occasione della
processione le comari che avevano contratto il “sangiovanni dei
fiori” seguivano il corteo affiancate. Il “sangiovanni dei fiori”
era spesso il veicolo lecito e socialmente accettato per avvicinare
una famiglia dove c’era un giovanotto che poteva rappresentare
un buon partito per un eventuale matrimonio.
La
sera del 23 di giugno, vigilia della festa di San Giovanni, molti,
in genere ragazze, per sapere se si sarebbero presto fidanzate,
bruciavano un fiore di cardo, da noi conosciuto con il nome “u
hjiuri i sangianni”. Se
all’alba del 24 il fiore era di nuovo fresco, voleva dire che
il loro desiderio si sarebbe avverato». Anche il “commaratu
di hjiuri”, la cerimonia che vedeva protagoniste le nostre
giovani donne, si consumava, arrivando in tal modo alla fine di
giugno, quando in altre zone d’Italia a sera si susseguivano le
luminarie. Le giornate iniziavano ad accorciarsi e il caldo estivo
si faceva sentire sempre più e con esso si apriva una nuova stagione
e quindi un’altra storia…
Un
sentito ringraziamento a:
Vincenzo Ammendolia e Ideal
Foto
per
le splendide foto forniteci.
Un
ringraziamento cordiale al Prof. Gustavo Cannizzaro che ha scelto
il nostro sito web
per la prima pubblicazione di questo suo saggio
Il
sacro e il profano nel giugno cauloniese
di Gustavo Cannizzaro www.caulonia2000.it
- Maggio 2001