Questa sezione raccoglie scritti, articoli, storie, usi e costumi
della tradizione cauloniese

           
     

  

     
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Giugno vedeva le nostre donne impegnate ad impastare le ultime farine; bisognava essere pronte a trovarsi nella Chiesa Matrice il giorno di sant’Antonio con gustosissime pagnotte dentro graziose “gistedi” (canestri). Esigeva così la tradizione per tale ricorrenza e ancora oggi c’è chi lo fa.

La festa del nostro Santo fu fissata dal papa Gregorio XI il tredici di giugno, anniversario della morte, avvenuta appunto il venerdì 13 giugno 1231; ma subito dopo il “martedì” sarà il giorno sacro al nostro Santo, in quanto giorno della traslazione della salma dentro l’ ”Arca” della Basilica. Infatti, dopo poco tempo dalla sua morte, iniziò a diffondersi presso i fedeli la consuetudine dell’orazione del martedì. Nell’età della Controriforma, un miracolo, ottenuto con preghiere ripetute per nove martedì di seguito, diffuse notevolmente tale rito. Pare che, secondo quanto riporta A. F. Pavanello, biografo del Santo, una nobildonna bolognese si fosse rivolta al Taumaturgo per avere la gioia di stringere al seno un proprio figlio e dare nel contempo al marito la soddisfazione di divenire padre dopo oltre vent’anni di matrimonio. Secondo la stessa leggenda, sant’Antonio è apparso in sogno alla devota e avrebbe invitato quest’ultima a recitare la preghiera per ben nove martedì di seguito. La nobile dama fece quanto comandato e ottenne ciò che ardentemente desiderava. Solo che al momento della nascita, la signora bolognese si vide un bimbo malformato, un mostriciattolo. La povera madre non si perse d’animo e ancora una volta chiese l’intercessione del Santo. Per la seconda volta il Santo di Padova la esaudì e il piccolo essere si trasformò in un bimbo sano e bello. La notizia si divulgò e con essa la funzione dei nove martedì.

Più tardi essi, a ricordo del tredici giugno, furono portati a tredici e a sostegno di ciò contribuì la convinzione popolare che il santo dispensi ogni giorno tredici grazie e l’analogia con la tredicina, cioè l’insieme delle tredici preghiere dei tredici giorni precedenti la festa del Santo Patrono di Padova. Sempre a tredici ammonta il numero delle pagnotte da distribuire, come si è detto, ad amici e parenti.


Quest’ultima devozione è conosciuta con il nome “ Il pane dei poveri”.

Anche questa trae origine da un prodigio avvenuto verso la fine del tredicesimo secolo (ripetesi ancora una volta, il tredici, ma nella forma ordinale). Si narra che una donna, chiedendo al santo la restituzione in vita del proprio figlioletto, morto affogato in una tinozza, abbia promesso in cambio una panificazione corrispondente al peso del ragazzo. L’infelice madre insistette nella sua richiesta e nella promessa ed infine ebbe la gioia di vedere il suo piccolo rianimarsi e ritornare di nuovo in vita. La donna non venne meno al voto fatto e offrì ai poveri il pane promesso. Diffusasi la notizia, altri devoti iniziarono ad accompagnare la richiesta di qualche grazia con offerte di pagnotte agli affamati. “Nacque così la devozione che accomuna col vincolo della carità cristiana quelli che hanno bisogno dell’aiuto celeste con quelli che hanno anche bisogno dell’aiuto terreno” (A. F. Pavanello).

Tale consuetudine, in un primo periodo, fu conosciuta con il nome del “Peso dei fanciulli” e con il passare degli anni si rafforzò sempre di più. Anche presso la gente di Caulonia la venerazione verso questo Santo è stata sempre alta (V. Naymo, in un documento da lui trovato e pubblicato con il titolo “Un ritratto di Castelvetere nel seicento”, attesta come già dalla seconda metà del XVII secolo fosse ubicata nel nostro Centro Storico una Chiesa consacrata al Santo e, quindi, una prova consistente di come il suo culto fosse vivo presso di noi fin da tempi molto remoti).

La statua, secondo una tradizione orale, proverrebbe dal monastero castelveterino di Santa Maria di Prima Luce, convento soppresso una prima volta nel 1783 (in tale sito nel 1863 è sorto l’attuale cimitero di Caulonia).
L’informazione pare molto verosimile soprattutto se si tiene conto che detto eremo fu un convento di cappuccini, frati francescani, e la nostra statua ha le caratteristiche di una scultura conventuale, che con molta probabilità risalirebbe al XVIII secolo (a sostegno di quanto detto si ricorda come Padre Fiore nella sua “Calabria sagra” ci fa presente che il nostro convento dei cappuccini fosse dotato di una cappella di Sant’Antonio).

Un’altra fonte, anch’essa orale, sostiene che la nostra scultura fu commissionata nel corso del XIX secolo dal signor Luigi D’Aquino padre di don Antonio D’Aquino, sacerdote devoto al nostro Santo: ne è prova il fatto che in tempi più recenti, per diversi decenni, la sua processione fu a cura del reverendo padre Francesco D’Aquino, nipote del primo e parroco di cui il ricordo è sempre vivo presso tutti i fedeli cauloniesi.

Oggi la statua è collocata nella Chiesa Matrice sull’altare dell’omonima cappella, chiusa da un’originalissima cancellata di ferro battuto (opera di artigiani locali del XIX secolo) e sormontata da una caratteristica cupola basiliana, che nella sua parte esterna le da un aspetto incomparabile. In tempi più recenti il nuovo abitato di Caulonia Marina è stato tutto consacrato alla devozione del nostro Santo, che con Sant’Ilarione in questa zona ne condivide la protezione.

Una graziosa scultura in polvere di marmo è issata su un piedistallo rivestito con lastre di travertino, nella piazzetta che da Lui prende il nome. Il Santo qui viene rappresentato oltre che con i suoi attributi tradizionali, giglio e Gesù Bambino, anche con un libro attestante il suo stato di dottore di Santa Romana Chiesa.

Le nostre mamme sempre di più vi si rivolgevano per chiedere il suo intervento protettivo sui propri figlioletti.

Anche da noi, in prossimità del mese dedicato alla devozione del Santo patavino, numerose erano i “fantolini” vestiti con un piccolo e simpatico saio francescano, l’abito proprio del nostro Santo. Inoltre, a Sant’Antonio ci si rivolgeva tutte le volte che veniva smarrito un oggetto con la recita di una preghiera conosciuta come il “Dispensorio” di Sant’Antonio:

"Sant’Antoni meu benignu
di pregari non su degnu
pe’ sta cosa chi perdivi
a Sant’Antoni ricurrivi
ricurrivi o Tabernaculu
Sant’Antoni faci u miraculu
Sant’Antoni meu marinaru
Cacciatimi sta cosa o chjianu".

La persona, invitata a ripetere tali versi, doveva farlo in silenzio e solo se l’orazione si sviluppava con una certa scioltezza e senza alcun indugio o, meglio ancora, senza alcuna interruzione, perché non venisse dimenticata qualche parola o verso, si poteva avere la certezza dell’aiuto del santo, ritrovando l’oggetto smarrito.

Era proprio una consuetudine diffusissima ricorrere al nostro Santo per ritrovare le cose perdute.
A tal proposito, sempre A. F. Pavanello, così scrive: “Risale certamente alle più antiche età perché il Si quoeris ha i noti versetti:

Membra resque perditas
Petunt et accipiunt
Iuvenes et cani

(Membra e cose perdute – chiedono e ricevono – giovani e vecchi)

 


 

Non si hanno notizie specifiche di fatti che abbiano dato origine a questa fiducia dei devoti. Qualcuno pensa che Giuliano da Spira nel suo Responsorio alludesse al Salterio rubato dal novizio al santo e poco dopo restituito. Narrando dell’attività del Santo a Montpellier non abbiamo omesso le circostanze straordinarie che furono causa della restituzione. Nel racconto ci fu guida il liber miraculorum, ma l’origine della devozione è ignota. Si può dire che l’esperienza giustifichi e confermi questa devozione, quasi il Signore (destinasse Sant’Antonio a far restituire ai padroni le cose smarrite per caso o rubate dai ladri)”. Sempre al culto del santo era legata la ingenua filastrocca:

"Sant’Antoni jia e ‘bbenia
mentri lu pani lu benedicia
e lu mari si fici ogghjiu
Sant’Antoni na grazia vogghjiu".

Una particolare devozione verso il Santo trovava rispondenza nelle nostre giovani donne, ragazze da marito, che con fede, non del tutto disinteressata, facevano la “giornata” in chiesa ai piedi della sua statua con la forte speranza di potersi al più presto accasare. E prima di recitare coralmente il Santo Rosario,ciascuna ragazza nel proprio intimo e sicuramente con un po’ di pudicizia mista ad un po’ di malizia si raccomandava al proprio protettore con i seguenti versi:

"Sant’Antonio mio glorioso
tutto amabile amoroso
ottenetemi da Dio
quanto spera il cuore mio".

o meglio con espressioni proprie del nostro dialetto e in modo più palese:

"Sant’Antoni meu benignu
vui sapiti pecchì vegnu
ca la doti è preparata
vorria  essiri maritata".

Sempre su questo tema si riporta l’interessantissima canzone in versi e in forma dialogata:

figghjiu

"Mamma mi vinni ‘nsonnu Sant’Antoninu
e mi dissi « ’O Cavaleri randi e poderusu
quantu mi voi dari mu ti sanu tutti i toi doluri ? »
« Ti dugnu la me’rrobba e lu dinaru
puru lu meu palazzu e lu me stari ! »
« Non ‘bbogghjiu la to ‘rrobba nè dinaru
nemmeno lu toi palazzu e lu to stari
eu n’orfana ti dugnu a maritari
chi all’artaru meu soli veniri. »

mamma

« Figghjiu non dari creditu allu sonnu
jiamu alla chiesa pe ’non fari errori.
»
Jiru alla chiesa e la’ trovaru dani,
e pedi d’u sant’artaru chi ciangia.
« Levati figghjia e non ciangiri cchjiuni
ca eu ti vegnu mamma e tu mi veni nora.
»
Nu vecchjiu vestitedu nci cacciaru
Nu riccamentu d’oru nci mentiru
comu lu matrimoniu si dicia
lu Cavaleri m’pedi si lurgia.
Quandu lu matrimoniu s’annunciau
lu Cavaleri ‘mpedi caminau.
Viti chi miraculu divinu
chista la maritau Sant’Antoninu

 

La musicalità del verso popolare che ha in se l’insito piacere di raccontarsi, si manifesta nell’ardore della nenia, che mette in risalto un amore viscerale nei confronti del Santo; via via l’intensità della prece lo fa diventare sempre più familiare, tant’è che si finisce con l’usare il tenero vezzeggiativo “Sant’Antoninu”.

Ma è con la panificazione delle tredici pagnotte che la devozione verso il Santo trovava la sua manifestazione più alta anche presso tutta la nostra gente.

 



Il sacro e il profano nel giugno cauloniese
di Gustavo Cannizzaro

www.caulonia2000.it - Maggio 2001



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