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I
Carafa, dinastia di feudatari per Castelvetere
Parte Seconda - Il Principato
All'ampliamento dello stato si affiancò una notevole attività di urbanizzazione del territorio sostenuta dall'incremento demografico registratosi nella fascia ionica compresa tra Stilo e Siderno fra il 1561 e il 1595. I costi delle nuove fondazioni non scoraggiarono l'azione del Carafa, il quale nel territorio di Castelvetere riedificò, con privilegio del 17 marzo 1589, i casali di S. Maria della Grazia e di Campoli, mentre due anni dopo fondò ex novo un grosso casale che, dal proprio nome, chiamò Fabrizia. Successivamente, accogliendo dei profughi al seguito della famiglia Sotira, sfuggiti alle prepotenze del marchese di S. Agata, consentì l'edificazione del casale di Caraffa in territorio di Bianco ed acquistò la fonte di Boccalupi per alimentare i mulini da lui stesso costruiti onde evitare che la popolazione del nuovo casale fosse costretta a servirsi di quelli del marchese di S. Agata.
Il 24 marzo 1594 Filippo II concesse al Carafa il titolo di principe di Roccella con un privilegio nel quale si richiamavano le virtù militari e la fedeltà dei suoi avi, nonché il fatto d'armi di cui Fabrizio era stato protagonista. La concessione della dignità principesca rappresentava il coronamento di un'ambizione già espressa nel 1581, quando Fabrizio aveva chiesto al sovrano il titolo dietro versamento di una congrua somma di denaro sulla quale probabilmente non si giunse ad un accordo. Altri titoli avrebbe ancora cumulato dopo la repressione della congiura del Campanella, alle cui teorie, in un primo tempo, il principe sembrava interessato. Furono invece proprio i suoi uomini ad arrestare il frate, che venne rinchiuso nelle carceri di Castelvetere, da dove iniziò la sua lunga vicenda giudiziaria. Al Carafa giunsero lettere di ringraziamento dello stesso Filippo II, il che rivelerebbe l'atteggiamento calcolatore di Fabrizio, mirante ad apparire, con lo zio Carlo Spinelli, come uno dei principali repressori della cospirazione campanelliana. Non sorprendono dunque le ulteriori tappe dell'ascesa di Fabrizio, che ritroviamo fra i membri dell'ambasciata di obbedienza al papa condotta, nel marzo del 1600, dal viceré di Napoli, Fernando Ruiz de Castro, conte di Lemos. Il viceré fu accompagnato dai principi di Sulmona, d'Avellino, di Roccella e di Sansevero, nonché dai duchi di Bovino e Monteleone. A questi grandi titolati si aggiunsero il marchese del Vasto e Girolamo Carafa, figlio di Fabrizio, al quale il padre, nel 1613, avrebbe formalmente refutato il titolo - già adottato da Girolamo - di marchese di Castelvetere; partì anche la viceregina, accompagnata dalla duchessa di Monteleone e dalla figlia di quest'ultima, Giovanna Pignatelli, duchessa di Terranova. Il 9 novembre 1600, Fabrizio fu nominato decano del Consiglio Collaterale; il 16 agosto 1622 l'imperatore Ferdinando II lo insignì del titolo di principe del Sacro Romano Impero e nello stesso anno Filippo IV lo accolse nell'Ordine del Toson d'Oro. Al consolidamento della sua posizione dovette contribuire, in modo determinante, il matrimonio con Giulia Tagliavia d'Aragona, figlia di Carlo. principe di Castelvetrano, uno dei maggiori titolati del Regno, viceré di Catalogna e governatore di Milano, marito di Caterina Ventimiglia dei principi di Geraci. Inserito in un contesto sociale sensibilissimo alle disquisizioni dotte sul concetto di nobiltà, il Carafa non si risparmiò in espressioni di prestigio: nella sua terra di Roccella fondò un priorato dell'Ordine Gerosolimitano, ricevendo l'assenso apostolico con bolla del 6 ottobre 1614; a Napoli poi, nel 1595, acquistò da Andrea Matteo Acquaviva d' Aragona, principe di Caserta, un palazzo con giardino nella Via di Nido, demolito il quale edificò «da fondamenti», come attesta l'Aldimari, l'ancora esistente palazzo Carafa della Spina. Nella corsa ai titoli e alle precedenze subì anche qualche smacco, come avvenne in occasione della consegna ufficiale del tosone, quando il viceré e gli altri cavalieri dell'Ordine stabilirono che l'onorificenza fosse ricevuta prima dal principe d'Avellino (che aveva in più il titolo di duca su Atripalda) e poi da quello di Roccella. Più grave fu l'insuccesso in occasione della nomina del cardinale di Napoli, nel 1605. L'elezione dell'Acquaviva frustrò le aspettative di casa Carafa, che non dovevano certo essere state dissimulate dal momento che il popolino andava ripetendo: «per Napoli se dice che è cascata una palla, ha rotto una carrafa e ni è uscita acquaviva». La delusione fu però compensata, due anni più tardi, dalla conclusione del matrimonio tra il primogenito di Fabrizio, Girolamo, che portava il titolo di marchese di Castelvetere, e Diana Vittori Borghese, nipote di papa Paolo V. Questo matrimonio costituì la premessa per l'elezione al cardinalato di Carlo, secondogenito di Girolamo e Diana, avvenuta il 14 gennaio 1664 col titolo di S. Susanna. Confortato dalla conclusione del matrimonio, il principe Fabrizio si premurava di comunicare il «casamento» del figlio a quanti egli riteneva di dover rendere partecipi di ogni aumento del proprio prestigio. Ne è un esempio la lettera inviata da Napoli il 3 agosto 1607 al granduca di Toscana, col quale il Carafa aveva da tempo instaurato delle buone relazioni mediate dall'agente toscano a Napoli e fondate da una parte sull'interesse della corte granducale a disporre di valide entrature presso il viceré, dall'altra sulla ricerca esasperata del Carafa di un riconoscimento in più, rispetto agli altri titolati del Regno, della propria dignità, del livello raggiunto nella suprema gerarchia del potere sociale e politico; una sfera in cui si agitavano sottili dispute sui titoli dalle quali, fuori di casa propria, non era immune lo stesso granduca di Toscana. L'occasione di stringere il rapporto con Ferdinando I dei Medici si offrì al principe di Roccella per un incidente intercorso, presso il Seggio di Nido, tra suo figlio Girolamo e don Giovanni d'Avalos, figlio di Cesare. Molto probabilmente si trattò di una delle solite questioni di precedenza fra nobili, pronti a farle insorgere in qualunque momento e in ogni luogo con la naturale soluzione del duello. In questo caso i due menarono «le mani molto bene e sono rimasti tutti dui feriti, et il marchese [di Castelvetere] poveromo, bellissimo cavaliere, è rimasto con un gran frego sul mustaccio e nel viso, che in vero ne sente despiacere tutta questa cità». La ferita creò al giovane marchese un grosso problema estetico per la cui soluzione i suoi genitori si rivolsero appunto al granduca, proprietario di una famosa "fonderia" nota per i mirabili "rimedi'' e "secreti" in essa prodotti. Nel sollecitare la soddisfazione della richiesta alla segretería granducale, il Barnaba informava che «nelle terre di questi signori se possono fare di molte provisioni per servitio delle.galere, standono quelle alle marine di Levante»; e in altro luogo, riferendo la soddisfazione dei Carafa per le lettere del granduca e l'efficacia del farmaco, scriveva che quei signori erano «tutti di palazzo, e la principessa puole assai con la viceregina». Una pur comprensibile, ma fin troppo presunta sicurezza della propria posizione impedì però a Fabrizio di valutare quelle che sarebbero state le conseguenze negative di un suo contrasto col viceré, il duca d'Alba, sull'uso delle acque di S. Agata e Airola, che dovevano essere portate a Napoli con un progetto dispendioso al quale il Carafa si opponeva. L'irritazione del duca lo costrinse a rifugiarsi nella chiesa di S. Maria di Piedigrotta fino al 1629, quando arrivò il nuovo viceré, il duca d'Alcalà. Il 6 settembre di quello stesso anno Fabrizio passava a miglior vita lasciando «la sua casa molto ben posta», In effetti egli aveva saputo superare brillantemente la crisi in cui versava il proprio casato con una corretta gestione delle entrate feudali e dei prestiti ottenuti da altri nobili e banchieri. Deve quindi considerarsi del tutto gratuito il giudizio espresso da un menante su Fabrizio («Non è uomo che molto vaglia»), anche se possiamo credere che il principe spendesse grosse somme «alla Napoletana cioè in vanità», la qual cosa non poteva passare inosservata a un corrispondente toscano. Questa nuova situazione patrimoniale, unitamente alla posizione guadagnata nella nobiltà del Regno, consentì ai figli del Carafa di conseguire ragguardevoli posizioni sociali: Vincenzo divenne il capostipite della linea dei duchi di Bruzzano, Carlo fu nominato vescovo di Aversa; Simone divenne arcivescovo di Messina; Francesco, infine, è ricordato come primo priore di Roccella e prefetto delle galere di Malta.
Il principe Girolamo non raggiunse, a corte, la posizione del padre: era apprezzato quale maestro di ballo nei ricevimenti ufficiali, ma anche per qualche suo intervento d'appoggio al potere politico. Nel dicembre 1634 lo troviamo impegnato col principe di Bisignano, in una riunione del seggio di Nido, a sostenere le ragioni del viceré per nuove imposizioni fiscali alle quali la città recisamente si opponeva. Non mi risulta che si sia distinto in qualche impresa militare, anche se nel 1624, quando era marchese di Castelvetere, assumeva il comando di una compagnia di cavalleggeri per rinuncia in suo favore del duca di Gravina. A Girolamo ( 1652) successe il primo dei suoi undici figli, Fabrizio, una figura poco illustrata dalle fonti, forse perché la storia non gli offrì molte occasioni per emergere. Fu comunque uomo di fiducia del viceré e, come prevedibile, si mantenne fedele alla Corona nei moti napoletani del 1647. Nel 1640, Fabrizio sposò Agata Branciforte, figlia di Giovanni, conte di Mazzarino, e nipote del principe di Butera, esponente di una delle maggiori famiglie della nobiltà siciliana, e vedremo quanto tale matrimonio sarebbe stato determinante per il consolidamento delle fortune carafesche.
chinea al papa, descrizione alla quale si rimanda chi volesse avere un'idea dell'importanza assunta dal momento cerimoniale nell'ultimo quarto del Diciassettesimo secolo. Iprincipi, che appaiono in tutto il proprio fulgore al centro della scena e negli episodi culminanti della cerimonia, tendono ad avvolgersi di un'aura che non si riduce e di un «romore» che non si affievolisce: l'eco di entrambi, affatto intensificata, si riproduce piuttosto, oltre la fase cerimoniale, in odi o narrazioni celebrative composte con sapiente retorica e ricche iperboli secondo le svariate gradazioni della cultura propria degli autori, accomunati da un analogo intento: illuminare la figura del "proprio" principe anche per mezzo di quanti, più potenti di lui, possano di riflesso intensificare tale luce. Così va interpretata non solo la Relatione di Emanuele Calauti, ma anche tutta l'opera dell'Aldimari, il cui sviluppo sembra, a un certo punto, un prologo alla celebrazione della figura di Carlo Maria, committente dell'opera medesima.
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