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I Carafa, dinastia di feudatari per Castelvetere
Tratto dal libro: "I Carafa in Calabria: dai primi feudi al principato"
di Roberto Fuda


 

Parte Seconda - Il Principato  

      


Fabrizio Carafa I° Principe di Roccella

   Nel 1561 Siderno, già uscita dal patrimonio dei Carafa di Castelvetere, era posseduta da Giulia Carafa, sorella di Giovanbattista; sicché, a metà secolo, lo stato già appartenuto a quest'ultimo era ridotto ai feudi di Castelvetere e Roccella.
   Il ristabilimento delle fortune della famiglia non poté essere avviato da Girolamo, morto ancor giovane nel 1570, ma trovò dei validissimi artefici in Livia Spinelli, che nel 1574 riacquistò Siderno, e soprattutto nel di lei figlio Fabrizio, della cui attività é il caso di riassumere i momenti salienti a partire dall'acquisto, nel 1588, della contea di Condoianni e della baronia di Bianco, con Careri e Pentina, vendute all'incanto nel S.R.C. ad istanza dei creditori dei Marullo.
Nel 1605 acquistò, per 40.300 ducati, anche Arpaia (provincia di Principato Ultra), nell'anno precedente messa all'asta dal S.R.C. ad istanza dei creditori del marchese Francesco de Guevara. Nel 1628, infine, poté riacquistare Grotteria.

Fabrizio fin dal 1589 aveva tentato di recuperare la contea dando inizio a una lunga controversia con i d'Aragona de Ayerbe fondata su un presunto difetto del regio assenso all'alienazione della terra e sul mancato rispetto dello ius offerendi che egli aveva, in qualità di recedente possessore, sul feudo di Romano, venduto al barone di Gioiosa, Michele Caracciolo. La controversia si protrasse a lungo e nel frattempo - come precisa il Pellicano - i Carafa continuarono a intitolarsi anche conti di Grotteria. Al momento della rivendica la baronia comprendeva, oltre alla terra sulla quale era incardinato il titolo, i casali di S. Giovanni e Martone ed era posseduta da Gaspare d'Aragona de Ayerbe, quinto marchese di Grotteria, oberato da ingenti debiti. Nel 1628, questi la cedette «senza patto di ricompra» per 68.400 ducati, ma la vendita divenne esecutiva con R.A. del 26 dicembre 1631. Così l'importante complesso rientrava nello stato dei Carafa, dove sarebbe rimasto fino all'eversione della feudalità.
   All'ampliamento dello stato si affiancò una notevole attività di urbanizzazione del territorio sostenuta dall'incremento demografico registratosi nella fascia ionica compresa tra Stilo e Siderno fra il 1561 e il 1595.
I costi delle nuove fondazioni non scoraggiarono l'azione del Carafa, il quale nel territorio di Castelvetere riedificò, con privilegio del 17 marzo 1589, i casali di S. Maria della Grazia e di Campoli, mentre due anni dopo fondò ex novo un grosso casale che, dal proprio nome, chiamò Fabrizia. Successivamente, accogliendo dei profughi al seguito della famiglia Sotira, sfuggiti alle prepotenze del marchese di S. Agata, consentì l'edificazione del casale di Caraffa in territorio di Bianco ed acquistò la fonte di Boccalupi per alimentare i mulini da lui stesso costruiti onde evitare che la popolazione del nuovo casale fosse costretta a servirsi di quelli del marchese di S. Agata.


Roccella Jonica

Porta Sant'Antonio

   Anche Fabrizio, come il nonno Giovanbattista, ottenne di tenere annualmente delle fiere nei propri feudi, benché di durata inferiore rispetto a quella di Motta Gioiosa: nel 1595 poté infatti istituire le fiere di Castelvetere (nel giorno di S. Nicola) e di Roccella (nel giorno di S. Croce di settembre); nel 1616, infine, ottenne il privilegio per la fiera di Siderno, fissata per il 9 agosto di ogni anno.
   Pur non essendosi impegnato militarmente quanto il padre, nel 1594 Fabrizio poté dimostrare le proprie capacità sostenendo con valore e successo l'urto del Cicala (Cighala-Zade-Yusuf-Sinan-Pashà), il quale, dopo aver saccheggiato Reggio e devastato la costa ionica meridionale, aveva posto l'assedio a Castelvetere. Non meno dannosi - perché quasi sempre imprevedibili - erano gli innumerevoli sbarchi di piccole squadre corsare, come quello che, il venerdì santo del 1599, fruttò il sequestro di quaranta persone nei dintorni di Roccella. Nel 1602 il tenace Cicala, dopo un inutile assalto «alla presidiatissima Reggio», veniva respinto

anche dalla terra di Bianco.
   Il 24 marzo 1594 Filippo II concesse al Carafa il titolo di principe di Roccella con un privilegio nel quale si richiamavano le virtù militari e la fedeltà dei suoi avi, nonché il fatto d'armi di cui Fabrizio era stato protagonista. La concessione della dignità principesca rappresentava il coronamento di un'ambizione già espressa nel 1581, quando Fabrizio aveva chiesto al sovrano il titolo dietro versamento di una congrua somma di denaro sulla quale probabilmente non si giunse ad un accordo. Altri titoli avrebbe ancora cumulato dopo la repressione della congiura del Campanella, alle cui teorie, in un primo tempo, il principe sembrava interessato. Furono invece proprio i suoi uomini ad arrestare il frate, che venne rinchiuso nelle carceri di Castelvetere, da dove iniziò la sua lunga vicenda giudiziaria. Al Carafa giunsero lettere di ringraziamento dello stesso Filippo II, il che rivelerebbe l'atteggiamento calcolatore di Fabrizio, mirante ad apparire, con lo zio Carlo Spinelli, come uno dei principali repressori della cospirazione campanelliana. Non sorprendono dunque le ulteriori tappe dell'ascesa di Fabrizio, che ritroviamo fra i membri dell'ambasciata di obbedienza al papa condotta, nel marzo del 1600, dal viceré di Napoli, Fernando Ruiz de Castro, conte di Lemos. Il viceré fu accompagnato dai principi di Sulmona, d'Avellino, di Roccella e di Sansevero, nonché dai duchi di Bovino e Monteleone. A questi grandi titolati si aggiunsero il marchese del Vasto e Girolamo Carafa, figlio di Fabrizio, al quale il padre, nel 1613, avrebbe formalmente refutato il titolo - già adottato da Girolamo - di marchese di Castelvetere; partì anche la viceregina, accompagnata dalla duchessa di Monteleone e dalla figlia di quest'ultima, Giovanna Pignatelli, duchessa di Terranova.
   Il 9 novembre 1600, Fabrizio fu nominato decano del Consiglio Collaterale; il 16 agosto 1622 l'imperatore Ferdinando II lo insignì del titolo di principe del Sacro Romano Impero e nello stesso anno Filippo IV lo accolse nell'Ordine del Toson d'Oro. Al consolidamento della sua posizione dovette contribuire, in modo determinante, il matrimonio con Giulia Tagliavia d'Aragona, figlia di Carlo. principe di Castelvetrano, uno dei maggiori titolati del Regno, viceré di Catalogna e governatore di Milano, marito di Caterina Ventimiglia dei principi di Geraci.
   Inserito in un contesto sociale sensibilissimo alle disquisizioni dotte sul concetto di nobiltà, il Carafa non si risparmiò in espressioni di prestigio: nella sua terra di Roccella fondò un priorato dell'Ordine Gerosolimitano, ricevendo l'assenso apostolico con bolla del 6 ottobre 1614; a Napoli poi, nel 1595, acquistò da Andrea Matteo Acquaviva d' Aragona, principe di Caserta, un palazzo con giardino nella Via di Nido, demolito il quale edificò «da fondamenti», come attesta l'Aldimari, l'ancora esistente palazzo Carafa della Spina. Nella corsa ai titoli e alle precedenze subì anche qualche smacco, come avvenne in occasione della consegna ufficiale del tosone, quando il viceré e gli altri cavalieri dell'Ordine stabilirono che l'onorificenza fosse ricevuta prima dal principe d'Avellino (che aveva in più il titolo di duca su Atripalda) e poi da quello di Roccella. Più grave fu l'insuccesso in occasione della nomina del cardinale di Napoli, nel 1605. L'elezione dell'Acquaviva frustrò le aspettative di casa Carafa, che non dovevano certo essere state dissimulate dal momento che il popolino andava ripetendo: «per Napoli se dice che è cascata una palla, ha rotto una carrafa e ni è uscita acquaviva». La delusione fu però compensata, due anni più tardi, dalla conclusione del matrimonio tra il primogenito di Fabrizio, Girolamo, che portava il titolo di marchese di Castelvetere, e Diana Vittori Borghese, nipote di papa Paolo V. Questo matrimonio costituì la premessa per l'elezione al cardinalato di Carlo, secondogenito di Girolamo e Diana, avvenuta il 14 gennaio 1664 col titolo di S. Susanna. Confortato dalla conclusione del matrimonio, il principe Fabrizio si premurava di comunicare il «casamento» del figlio a quanti egli riteneva di dover rendere partecipi di ogni aumento del proprio prestigio. Ne è un esempio la lettera inviata da Napoli il 3 agosto 1607 al granduca di Toscana, col quale il Carafa aveva da tempo instaurato delle buone relazioni mediate dall'agente toscano a Napoli e fondate da una parte sull'interesse della corte granducale a disporre di valide entrature presso il viceré, dall'altra sulla ricerca esasperata del Carafa di un riconoscimento in più, rispetto agli altri titolati del Regno, della propria dignità, del livello raggiunto nella suprema gerarchia del potere sociale e politico; una sfera in cui si agitavano sottili dispute sui titoli dalle quali, fuori di casa propria, non era immune lo stesso granduca di Toscana.
   L'occasione di stringere il rapporto con Ferdinando I dei Medici si offrì al principe di Roccella per un incidente intercorso, presso il Seggio di Nido, tra suo figlio Girolamo e don Giovanni d'Avalos, figlio di Cesare. Molto probabilmente si trattò di una delle solite questioni di precedenza fra nobili, pronti a farle insorgere in qualunque momento e in ogni luogo con la naturale soluzione del duello. In questo caso i due menarono «le mani molto bene e sono rimasti tutti dui feriti, et il marchese [di Castelvetere] poveromo, bellissimo cavaliere, è rimasto con un gran frego sul mustaccio e nel viso, che in vero ne sente despiacere tutta questa cità». La ferita creò al giovane marchese un grosso problema estetico per la cui soluzione i suoi genitori si rivolsero appunto al granduca, proprietario di una famosa "fonderia" nota per i mirabili "rimedi'' e "secreti" in essa prodotti. Nel sollecitare la soddisfazione della richiesta alla segretería granducale, il Barnaba informava che «nelle terre di questi signori se possono fare di molte provisioni per servitio delle.galere, standono quelle alle marine di Levante»; e in altro luogo, riferendo la soddisfazione dei Carafa per le lettere del granduca e l'efficacia del farmaco, scriveva che quei signori erano «tutti di palazzo, e la principessa puole assai con la viceregina».
Una pur comprensibile, ma fin troppo presunta sicurezza della propria posizione impedì però a Fabrizio di valutare quelle che sarebbero state le conseguenze negative di un suo contrasto col viceré, il duca d'Alba, sull'uso delle acque di S. Agata e Airola, che dovevano essere portate a Napoli con un progetto dispendioso al quale il Carafa si opponeva. L'irritazione del duca lo costrinse a rifugiarsi nella chiesa di S. Maria di Piedigrotta fino al 1629, quando arrivò il nuovo viceré, il duca d'Alcalà. Il 6 settembre di quello stesso anno Fabrizio passava a miglior vita lasciando «la sua casa molto ben posta», In effetti egli aveva saputo superare brillantemente la crisi in cui versava il proprio casato con una corretta gestione delle entrate feudali e dei prestiti ottenuti da altri nobili e banchieri. Deve quindi considerarsi del tutto gratuito il giudizio espresso da un menante su Fabrizio («Non è uomo che molto vaglia»), anche se possiamo credere che il principe spendesse grosse somme «alla Napoletana cioè in vanità», la qual cosa non poteva passare inosservata a un corrispondente toscano.
   Questa nuova situazione patrimoniale, unitamente alla posizione guadagnata nella nobiltà del Regno, consentì ai figli del Carafa di conseguire ragguardevoli posizioni sociali: Vincenzo divenne il capostipite della linea dei duchi di Bruzzano, Carlo fu nominato vescovo di Aversa; Simone divenne arcivescovo di Messina; Francesco, infine, è ricordato come primo priore di Roccella e prefetto delle galere di Malta.


Vincenzo Carafa, capostipite del ramo di Bruzzano


Cardinale Carlo Carafa


Girolamo Carafa

   La fondazione del baliato di Roccella, voluta da Fabrizio, primo principe, fu eseguita da Girolamo, suo primogenito e successore, in favore del fratello Francesco con titolo di priore, dignità di gran croce, una dote di quarantamila e una rendita di duemila ducati. Era inoltre previsto che dopo la morte del primo priore il baliato e la gran croce passassero ad altri due cavalieri di casa Carafa, uno di seguito all'altro, dopodiché il priorato si sarebbe dovuto estinguere, trasformandosi però in precettoria (o commenda). Ma quando il secondo priore, fra' Gregorio, figlio di Girolamo, divenne gran maestro dell'Ordine di Malta, il papa concesse una proroga per altri due discendenti della casa dopo Francesco, che nel frattempo era subentrato al fratello Gregorio nel priorato di Roccella.
   Il primogenito di Fabrizio, Girolamo, ereditò dunque un patrimionio considerevole, registrato nelle significatorie dei relevi sotto la data del 29 novembre 1630, comprendente Roccella, Castelvetere, Condoianni, Bianco, Motta Siderno, 30 duc. fiscali sul casale di Fabbrica o Pianura,

feudo S. Giorgio, Catepoccia e Casignana.
   Il principe Girolamo non raggiunse, a corte, la posizione del padre: era apprezzato quale maestro di ballo nei ricevimenti ufficiali, ma anche per qualche suo intervento d'appoggio al potere politico. Nel dicembre 1634 lo troviamo impegnato col principe di Bisignano, in una riunione del seggio di Nido, a sostenere le ragioni del viceré per nuove imposizioni fiscali alle quali la città recisamente si opponeva. Non mi risulta che si sia distinto in qualche impresa militare, anche se nel 1624, quando era marchese di Castelvetere, assumeva il comando di una compagnia di cavalleggeri per rinuncia in suo favore del duca di Gravina.
   A Girolamo († 1652) successe il primo dei suoi undici figli, Fabrizio, una figura poco illustrata dalle fonti, forse perché la storia non gli offrì molte occasioni per emergere. Fu comunque uomo di fiducia del viceré e, come prevedibile, si mantenne fedele alla Corona nei moti napoletani del 1647. Nel 1640, Fabrizio sposò Agata Branciforte, figlia di Giovanni, conte di Mazzarino, e nipote del principe di Butera, esponente di una delle maggiori famiglie della nobiltà siciliana, e vedremo quanto tale matrimonio sarebbe stato determinante per il consolidamento delle fortune carafesche.


S. Maria dei Minniti


S. Maria dei Minniti, chiesa parrocchiale di casa Carafa

   «In questa, Castelvetere hoggi, Metropoli de' suoi Stati nel Regno di Napoli nella Calabria di là, nacque l'Eccellentissimo Signor Principe di Butera, e della Roccella, a' 22. di Febraro ad hore sette, e minute 40 dell'anno 1651; E nel nascere, a' giubili della sua Casa, corrisposero gli applausi del Cielo; Mentre quella, con sollennità indicibili, e con triplicate salve del Castello, e della Città, ne festeggiò il natale, e particolarmente, che dopò molte Lune, spuntò questo Sole sommamente desiderato da' suoi; E questi con le salve di terribili tuoni, ch'in quel medesimo punto si sentirono con terrore, sollennizò la nascita d'un Grande, che ben dovea nell'attioni grandiose, essere un tuono de' Principi». Ho voluto riportare questa specie di prologo alla nascita di Carlo Maria Carafa per dare al lettore un'idea dei toni encomiastici, o meglio iperbolici, adottati dall'Aldimari nella compilazione della biografia dell'erede di Fabrizio e Agata Branciforte. Destino volle che fosse lui, e non il fratello maggiore Girolamo, morto giovane, ad ereditare lo stato nel 1671.

Come il padre durante i moti di Napoli del 1647, anche Carlo Maria ebbe l'opportunità di sostenere efficacemente il governo spagnolo in occasione della rivolta di Messina (1674), alla repressione della quale contribuì con un grosso contingente di uomini (reclutati nei propri feudi) inviato a Reggio al comando di don Giuseppe d'Aragona, feudatario del principe, e ivi imbarcato sulla squadra navale dei cavalieri di Malta guidata dal priore di Roccella Gregorio Carafa, zio di Carlo Maria. Il contingente fu sbarcato a Milazzo, da dove il viceré di Sicilia conduceva le operazioni contro Messina; tuttavia il contributo del Carafa, sulla scia dei successi riportati dai suoi uomini, fu integrato da donativi in contanti, approvvigionamenti, feluche armate e anche da due compagnie inviate di stanza a Reggio e ivi mantenute a sue spese. Erano tutte operazioni volte ad aumentare il prestigio del nome e suscitare l'ammirazione della Corona, ma un concreto e permanente incremento di titoli e patrimonio giunse a Carlo Maria dalla Sicilia: il 12 aprile 1676, infatti, moriva improle lo zio materno Giuseppe Branciforte, a cui il nipote calabrese succedeva nei feudi e nei titoli, che aggiungeva ai propri, divenendo così "colonnello" delle case Carafa, Branciforte, Barrese e Santapau; principe di Butera e Pietraperzia; grande di Spagna; primo signore del regno di Sicilia, capo del parlamento e del braccio militare di Sicilia; principe di Roccella e del Sacro Romano Impero; marchese di Licodia, Castelvetere, Militello e Barrafranca; conte di Grotteria, Grassugliati, Mazzarino e Condoianni; patrono del priorato gerosolimitano di Roccella.


Carlo Maria Carafa, ultimo di sua casa
nato nel castello di Castelvetere

   Nei propri feudi siciliani, governati per tre anni dallo zio priore, Carlo Maria si trasferiva nel 1679 e nel dicembre dell'anno successivo partecipava, quale capo del braccio militare, al Parlamento convocato dal viceré, in occasione del quale diede prova di abilità politica e diplomatica, intervenendo nelle attività giurisdizionalì e legislative del General Congresso e risolvendo, per usare le parole di re Carlo II, con «buena forma, y fineca» una controversia di precedenza suscitata dall'arcivescovo di Palermo, capo del braccio ecclesiastico, che si rifiutò di porgere visita ai capi dei bracci militare e demaniale. Alla fine del Parlamento il Carafa fu nominato deputato, carica che gli fu riconfermata nel Parlamento del 1690.
   L'Aldimari dedica più di quattro pagine alla descrizione del soggiorno maltese del principe e della sua consorte, Isabella d'Avalos d'Aquino, ospitati dallo zio Gregorio che, nel frattempo, era assurto alla dignità di gran maestro dell'Ordine di Malta. Ben più ampio spazio è però concesso alla descrizione dell'ambasciata straordinaria guidata dal Carafa per la tradizionale offerta della

chinea al papa, descrizione alla quale si rimanda chi volesse avere un'idea dell'importanza assunta dal momento cerimoniale nell'ultimo quarto del Diciassettesimo secolo. Iprincipi, che appaiono in tutto il proprio fulgore al centro della scena e negli episodi culminanti della cerimonia, tendono ad avvolgersi di un'aura che non si riduce e di un «romore» che non si affievolisce: l'eco di entrambi, affatto intensificata, si riproduce piuttosto, oltre la fase cerimoniale, in odi o narrazioni celebrative composte con sapiente retorica e ricche iperboli secondo le svariate gradazioni della cultura propria degli autori, accomunati da un analogo intento: illuminare la figura del "proprio" principe anche per mezzo di quanti, più potenti di lui, possano di riflesso intensificare tale luce. Così va interpretata non solo la Relatione di Emanuele Calauti, ma anche tutta l'opera dell'Aldimari, il cui sviluppo sembra, a un certo punto, un prologo alla celebrazione della figura di Carlo Maria, committente dell'opera medesima.

 

   

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I Carafa, dinastia di feudatari per Castelvetere
Tratto dal libro: "I Carafa in Calabria: dai primi feudi al principato" - CORAB
di Roberto Fuda


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