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I
Carafa, dinastia di feudatari per Castelvetere
Parte Terza - Il ramo Bruzzano
Negli ultimi anni della sua vita Carlo Maria si ritirò a Mazzarino, per dedicarsi soprattutto ad «applicationi virtuose» e «studii indefessi» dai quali scaturirono numerose opere messe a stampa fra il 1687 e il 1693. Carlo Maria Carafa, celebrato come un "Sole" dallo storico della sua casa, non poté purtroppo trasmettere a un figlio il proprio ingente patrimonio materiale e culturale: morì difatti improle a Mazzarino il 1° luglio 1695 e con lui si estinse la linea primogenita della famiglia. Sua erede in feudalibus fu la sorella Giulia, che presentò il relevio per gli stati del fratello, con tutti i feudi e le giurisdizioni. La quinta principessa di Roccella aveva già sposato un suo parente, Federico Carafa dei duchi Bruzzano; ma anche da questo matrimonio non nacquero figli e quando Giulia passò a miglior vita (4 dicembre 1703) si aprì una complessa successione, in forza della quale il principato di Butera e gli altri feudi siciliani passarono al ramo dei Branciforte rappresentato dal secondo principe di Leonforte, Giuseppe, marito di Caterina Branciforte, sorella di Agata e Giuseppe e dunque zia di Carlo Maria. Per la successione nei feudi calabresi insorse una controversia fra i d'Avalos d'Aquino ed i Carafa di Bruzzano. Le pretese dei primi risultavano ben fondate, in quanto Cesare Michelangelo d'Avalos d'Aquino, secondo principe d'Isernia, era non solo cognato, ma anche cugino di Carlo Maria, perché figlio di Francesca Carafa di Roccella, sorella del principe Fabrizio. Cesare Michelangelo, seguace dell'imperatore Leopoldo I, ottenne da questi, con privilegio del 12 marzo 1704, concessione e riconferma del titolo di principe del Sacro Romano Impero sia per meriti militari sia quale erede dei Carafa di Roccella. Le pretese dei Carafa di Bruzzano erano sostenute dal predetto matrimonio fra Giulia e Federico Carafa di Bruzzano, fratello di Giuseppe, secondo duca, e zio di Vincenzo, pretendente all'eredità. Dopo quattro anni, la controversia si concluse con una transazione (fra il Regio Fisco, i d'Avalos d'Aquino ed i Carafa di Bruzzano) che costituì la premessa della sentenza resa dalla Regia Camera della Sommaria in data 3 giugno 1707, in forza della quale Vincenzo Carafa poteva immettersi nel possesso dello stato di Roccella. L'imperatore riconosceva i diritti del principe con privilegio del 5 aprile 1719 e gli confermava il titolo di principe del Sacro Romano Impero con diploma dato in Vienna il 12 marzo 1720. Non é facile valutare quanto avessero giocato in favore di Vincenzo gli eventi politici con i quali si aprì il nuovo secolo; sembra tuttavia che durante la congiura aristocratica del 1701, nota come "congiura del principe di Macchia", Vincenzo Carafa, allora duca di Bruzzano, avesse assunto un atteggiamento filoasburgico evidentemente molto sfumato, dal momento che un'ispezione disposta nelle sue terre non raccolse né elementi di prova né indizi tali da giustificare azioni repressive nei confronti del duca. Comunque, tanto bastò a consolidare la posizione dei Carafa sotto gli Asburgo e agevolare la successione della linea di Bruzzano nel principato di Roccella. Vincenzo, capostipite, come si è visto, della seconda linea dei principi di Roccella, aveva contratto matrimonio con Ippolíta Cantelmo Stuart, figlia di Giuseppe, secondo principe di Pettorano e settimo duca di Popoli, discendente da una delle più nobili famiglie del Regno. Fu la principessa Ippolita ad assumere la reggenza dello stato dopo la morte del marito (1726) e durante la minorità dell'erede Gennaro Maria (1715 - 1767). Ippolita era una personalità di primo piano nei circoli letterari napoletani, ben nota anche al Vico, che, esaltandone le virtù morali e intellettuali, la ricorda come «degno generoso rampollo del ceppo reale di Scozia». Purtroppo ebbe a patire molto per le intemperanze del figlio Gennaro, protagonista, con Giuseppe Capecelatro, di un'aggressione a i danni di un gruppo di sbirri «che conduceva priggione un domestico di cavalliere di sua confidenza che era stato sorpreso con arma proibita... e fu egli il primo che precipitosamente scese e si aventò con spada nuda alla mano contro quella gente, vile bensì, ma che non aveva in quell'incontro altra colpa che di aver adempito al loro ufficio e a quegl'oblighi ch'appartengono ad una buona giustizia». Non contento di aver consentito la fuga del prigioniero, il principe, con i propri servi, si mise all'inseguímento degli sbirri «percuotendoli con battiture e maltrattando ancora con ferite taluno che osava far qualche resistenza per difendersi». Immediata la reazione del viceré, che costrinse il Carafa a rifugiarsi in una chiesa di Portici, mentre i suoi familiari si adopravano in suo favore. E solo grazie alla mediazione della «primaria nobiltà» Gennaro si poteva "spontaneamente" costituire nella fortezza di Ischia. Ma alcuni anni dopo, nel dicembre 1737 , il giovane principe superò ogni limite, questa volta ai danni di suoi pari, senza rendersi conto del mutato clima politico: «Questi signori non ancora concepiscono d'aver presente un re che ha il diritto e la potestà di vendicare sul fatto ogni loro trapasso, senza poter più rivogliersi come facevano sotto il viceré ad impetrar da lontano auttorità superiore». A Gennaro, riconosciuto colpevole di un grave arbitrio ai danni dei Pignateili, furono concessi tre giorni di tempo per allontanarsi da Napoli, anche se dopo appena due mesi era graziato dal re. Si trattava in fondo del principale esponente di una delle famiglie più in vista del Regno, anche se la considerazione dinastica non assumeva più una valenza politica di sostegno al ruolo ormai perduto nel generale clima di ridimensionamento voluto ed attuato da Carlo di Borbone nei confronti della nobiltà. Quest'ultima doveva cercare altrove un recupero e non escluderei, fra l'altro, l'ambito della massoneria napoletana come sede di riconoscimento e rinascita interiore. In tale contesto non meraviglia che anche il Carafa, iniziato a Parigi nella loggia Coustos (Vílleroy (luglio 1737), avesse aderito alla prima loggia napoletana aperta da Louis Larnage e Francesco Zelaya. Gennaro Maria Carafa contrasse due matrimoni: il primo con Silvia Ruffo di Bagnara, il secondo con Teresa Carafa, contessa di Policastro. Da Silvia nacque Vincenzo Maria, che nel 1767 avrebbe ereditato lo stato di Roccella. Quando la famiglia di Ippolita, nonna di Vincenzo, si estinse per morte senza figli di Giuseppe Cantelmo Stuart, quarto principe di Pettorano ( 1749), il cognome fu aggiunto al proprio da Restaino di Tocco di Montemiletto, figlio del principe Leonardo che aveva sposato Camilla, sorella di Giuseppe. Ma l'aggiunzione del prestigioso cognome fu concessa anche a Vincenzo Maria Carafa, VIII principe di Roccella (1739 - 1814), successo al padre Gennaro Maria ab intestato (1767) sia nei beni feudali sia nei "maggiorati" istituiti dall'arcivescovo di Messina, Simone Carafa, dal cardinale Fortunato Carafa e da Carlo Carafa di Roccella. L'aggiunzione del cognome Cantelmo Stuart (Stuard in alcuni documenti) voleva richiamare la parentela contratta nel 1696 dalle due famiglie per il matrimonio tra Vincenzo, allora duca di Bruzzano, e Ippolita, ma tale aggiunzione era riservata unicamente ai primogeniti della famiglia Carafa e ai principi di Montemiletto, che infatti ne perpetuarono l'uso fino alla propria estinzione. Vincenzo, il 9 dicembre 1774, riceveva così l'ultima intestazione feudale su uno degli stati più vasti della Calabria, della cui amministrazione a un certo punto non si curò più personalmente, tanto da delegarla per intero, insieme a quella dei beni del priorato, al primogenito Gennaro Maria, che recava il titolo di duca di Bruzzano, dal quale dipendeva l'erario di Roccella, Nicola Politi. Fondamentale, nella vicenda umana del principe, il matrimonio con Livia Doria del Carretto (1745 - 1779), figlia di Lazzaro Maria, marchese di Tizzano, e di Maria Teresa Doria, principessa di Avella e duchessa di Tursi. Rimasta orfana, Livia fu educata da Laura Serra, duchessa di Cassano, che volle farla istruire nelle scienze e nelle lettere al punto che la giovinetta sviluppò una tra le personalità più ammirate nei circoli letterari dell'epoca. Si giustificano dunque i brani alla sua memoria dedicati da Bettinelli, Cesarotti. Pindemonte e altri scrittori dell'Arcadia nella raccolta Prose e versi voluta dal marito, del quale era compagna inseparabile anche nei viaggi fatti a Roma, Genova e Milano.
Il poté ella; perché il suo esempio parlava più che la legge, e perché pur le menome delle sue azioni eran tali, che la facean comparire ogni dì più degna di comandarvi, e di essere amata». Tra i feudi dei Carafa di Roccella va annoverata anche la terra di Sambatello (con i casali di Santa Domenica, San Giovanni, San Biagio e Diminniti), benché essa non sia compresa nell'atto ufficiale d'intestazione feudale del 9 dicembre 1774 per mancanza di una formale investitura sovrana di un territorio le cui vicende, riferite dalle fonti storiche tradizionali, sono state esaminate anche dalla storiografia contemporanea e si possono brevemente riassumere segnalandone i momenti salienti a partire dalla decisione del Regio Fisco di vendere Sambatello - un territorio in cui erano impiantati ben mille fuochi - maturata nel 1638 e suscitata o sollecitata da una proposta di acquisto di Bartolomeo de Aquino, che, agendo per conto di persona da nominare, aveva offerto quaranta ducati per focolare, saliti a cinquantadue durante l'asta del 26 marzo tenutasi nel Consiglio Collaterale. Dopo l'aggiudicazione il de Aquino dichiarava che l'acquirente era il duca dì Bruzzano Vincenzo Carafa. L'immediata e fortissima reazione dell'oligarchia reggina condusse al riscatto del casale dietro rimborso al duca della somma di 52.000 ducati (cinquantadue a fuoco), pari a quella dal medesimo versata per l'aggiudicazione in asta.
subire il sequestro, iure pignoris et hypotecae, della tenuta di Sambatello, che fu trasferita con lo stesso titolo, e non in proprietà, a Gìuseppe de Leyva, principe di Ascoli, il quale vantava dalla Corte un credito di trentamila ducati. Come risulta da un documento dell'archivio Carafa, per morte del principe di Ascoli e in forza del testamento del di lui padre, don Antonio Loise de Leyva, i diritti su Sambatello, passarono al Monte di Ascoli, fondato a Napoli dallo stesso Antonio Loise. Ma dopo alcuni anni gli amministratori del Monte stipularono una convenzione col duca di Bruzzano, Giuseppe Carafa, figlio di Vincenzo, in virtù della quale questi divenne affittuario di Sambatello dietro versamento di un canone annuo di 1050 ducati. Sennonché, con atto del 21 dicembre 1665, íl Monte cedette al duca tutti i propri diritti sulla terra, diritti che - risolti gli strascichi relativi al pagamento del corrispettivo per essa dovuto - rimasero nel patrimonio dei Carafa di Bruzzano, poi eredi della linea primogenita. È per questo che il territorio di Sambatello fu rilevato e incluso nelle carte topografiche dell'atlante feudale che si va ad illustrare. |
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