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I Carafa, dinastia di feudatari per Castelvetere
Tratto dal libro: "I Carafa in Calabria:
dai primi feudi al principato"
di
Roberto Fuda
Parte
Prima - Le Origini
Opera
di Don Biagio Altimari
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Mosso
soprattutto da intenti celebrativi e sensibile alle esigenze del
suo nobile committente, l'Aldimari impostava la genealogia di casa
Carafa con un abile ma artefatto nesso tra Filippo I Carafa e «l'ultimo»
duca di Napoli, Sergio VI, il quale, sconfitto dal re di Sicilia
Ruggero II, sarebbe fuggito a Pisa, città di origine della propria
famiglia.
In realtà, ultimo duca di Napoli fu quel Sergio
VII che, dopo complesse vicende, si sottomise a Ruggero II per poi
cadere nella battaglia del 29 ottobre 1137 contro Rainulfo Drengot,
conte di Alife. Con la sua morte si estinse la casa ducale napoletana
che tanto fieramente si era opposta alla conquista normanna del
Mezzogiorno d'Italia. Dunque il Filippo I Carafa di cui parla l'Aldimari,
ignoto a tutte le fonti coeve, deve considerarsi nato dalla fantasia
e dalle necessità del genealogista, che si servì di documenti
apocrifi mai individuati da quanti li cercarono con le fasulle segnature
archivistiche da lui indicate.
Risulta altrettanto inattendibile una spiegazione
etimologica del cognome fondata su un processo associativo pseudoscientifico adottato da quanti |
accettano
ingenuamente l'episodio di cui sarebbe stato protagonista un esponente
della pisana famiglia Sigismondi, il quale avrebbe salvato la vita all'imperatore
Enrico VI. Questi, abbracciando il proprio salvatore, gli avrebbe detto:
«Cara fe' mi è la tua», e da allora i Sigismondi, in ricordo
di tale nobile e grata espressione, avrebbero mutato il proprio cognome
in Carafa! Non meno destituita di fondamento è un'altra nota etimologia
secondo la quale i Carafi sarebbero i Carae filii, cioè i discendenti
di Cara, moglie di Stefano Sigismondi.
È chiaro che tali leggende genealogiche e onomastiche
nascono e s'impongono laddove esiste una oggettiva difficoltà di ricostruzione
storica, difficoltà nella quale tuttavia s'imbatte il genealogista nel
momento in cui tenta di "sfondare" certi limiti cronologici oltre i quali
difficilmente può disporre di validi supporti documentari. Il caso dei
Carafa non si sottrae alla regola generale e gli esiti delle ricerche
non sempre sono stati univoci e immuni dalle influenze della tradizione.
In un recente studio sull'araldica carafesca si trova
riassunto lo status quaestionis e l'autore si attiene all'opinione più
nota e accreditata secondo la quale i Carafa si sarebbero distaccati da
quei Caracciolo che, al momento di una importante ramificazione della
famiglia, avrebbero assunto la denominazione di Caracciolo Rossi per distinguersi
dai Caracciolo Pisquizi e dai Caracciolo Cassano. In tale contesto, il
cognome Carafa rappresenterebbe la stabilizzazione del nomignolo attribuito,
nella prima metà del XIII sec., a quei Caracciolo che erano concessionari
in Napoli, della gabella sul vino volgarmente detta "campione della carafa".
Lo Scandone individuava in Gregorio il capostipite dei Caracciolo Carafa,
anche se tale
perso -
Trionfo
con lo stemma dei Carafa
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naggio gli era noto solo come Caracciolo. L'ipotesi che individua
in lui il primo titolare del soprannome è fondata sul fatto che,
in un documento del gennaio 1269, il figlio Tommaso, partigiano
di Corradino, è chiamato «de Caraffa».Dallo stesso documento
apprendiamo che Gregorio possedeva dei beni feudali presso Napoli,
Acerra e Aversa; circostanza, quest'ultima, confermata da un documento
più antico (redatto a Pascarola, presso Aversa, nel maggio 1186)
in cui trovo Gregorius Carazulo quale teste di una donazione al
vescovo aversano.
L'aggiunta del soprannome al cognome dinastico
si poteva rilevare nelle epigrafi sepolcrali di almeno quattro antichi
esponenti della famiglia sepolti nella chiesa napoletana di S. Domenico
Maggiore, dove, nella cappella Carafa della Spina, tuttora si conserva
una quinta epigrafe, quella di Letizia Caracciolo, vedova di Filippo
Caracciolo Carafa defunta nel |
nel
1340: Híc. requiescit co(r)p(us) d(omi)ne Leticie. Caraczole. prius. relicte.
quondam. d(omi)ni. Philippi. Caraczoli. dicti Carrafa.l et/ s(ecund)o/
do/mi/ni./ Ba/r(t)h/ol/om/lei./ Bulchani. quae. obiit. anno. D(omi)ni.
M.CCC.XXXX. die. ultimo. mens(is). ianuarii. VIII. ind(ictione). cui(ius).
a(n)i(m)a. req(u)iescat. in pace. amen.
Alle prove recate dai monumenti epigrafici il Borgia
aggiunge considerazioni di carattere araldico, formulando un'attendibile
ipotesi secondo la quale l'arma dei Carafa (uno scudo di rosso a tre fasce
d'argento) si sarebbe distaccata da quella dei Caracciolo Rossi (uno scudo
bandato d'argento e di rosso) «durante il periodo in cui il fenomeno
araldico andava affermandosi in Europa».
Rimossa così l'artefatta ascendenza dai duchi di Napoli
e individuato in Gregorio il probabile capostipite dei Caracciolo detti
Carafa, è possibile seguire la sua discendenza (secondo la ricostruzione
dello Scandone) attraverso il primogenito Bartolomeo, signore di Ripalonga,
padre di un Filippo dal quale nacque Bartolomeo II, marito di Teodora
del Gaudio di Sessa. Questo secondo Bartolomeo non va confuso col suo
omonimo figlio primogenito, Bartolomeo III, a cui vennero affidati importanti
incarichi dalla corte angioina e concesse fin dal 1296 (poco dopo la morte
del padre) le rendite di S. Caterina, in Calabria, che ammontavano a dieci
once. Con la moglie, Mabilia di Montefalcione, Bartolomeo III procreò
numerosi figli, fra i quali il primogenito Andrea sposò Maria di Cornay
divenendo, grazie a lei, signore di Forli. Da tre dei figli di costoro
discesero la linea dei conti di S. Severina (dal figlio Galeotto,
1415), le linee dei duchi di Forli e di Montenero (dal figlio Carlo,
1415) e quella dei conti di Grotteria (dal figlio Iacopo). Quest'ultima,
che è la linea primogenita, si trapiantò in Calabria con Iacopo di Onofrio
(a sua volta figlio del suddetto Iacopo), il quale, nella guerra sostenuta
da Ferrante I d'Aragona contro Giovanni d'Angiò e i baroni ribelli, con
in testa il marchese di Cotrone, Antonio Centelles, ebbe modo di distinguersi
quale comandante di un forte contingente militare lasciato di stanza in
Calabria dal re nel 1459, e soprattutto per avere occupato, alcuni anni
dopo, l'importante piazzaforte di Vasto, catturando Antonio Caldora, conte
di Trivento, che vi si era asserragliato. Durante la sua prima permanenza
in Calabria acquistò Gioia per 3.000 ducati, ma la sua ascesa si verificò
nel 1479, quando Ferrante d'Aragona gli espresse la propria gratitudine
investendolo di Castelvetere, Roccella e feudo Savato (o Favaco), che
si aggiunsero a tre castelli in Abruzzo ereditati dal padre.
Jacopo
Carafa I° Signore di Castelvetere
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È
noto che i feudi di Castelvetere e Roccella rientravano nello stato
feudale, poi smembrato, di Antonio Centelles; eppure qualche studioso
considera Galeotto Baldassino feudatario di Roccella prima dell'avvento
dei Carafa. Personalmente, preferisco attenermi a quei documenti
che segnalano il Baldassino quale provveditore dei castelli del
regno di Sicilia ultra Farum nonché castellano del castello e della
terra di Castelvetere. L'equivoco è probabilmente sorto a seguito
della 'pubblicazione, da parte del Pontieri, dell'atto della provvisoria
restituzione al Centelles di tutti i feudi che componevano il suo
stato (1462), fra i quali erano comprese le «terre di Castelvetere
et Roccella, quali si teneano per galeotto Baldaxino». Ma
un altro documento del 1452 chiarisce in modo inequivocabile che
il Baldassino deteneva Castelvetere (e senza dubbio anche Roccella,
detta, nello stesso documento, Roccella di Castelvetere) a titolo
di governatore e non di utilis dominus, titolo che in nessun atto
gli viene attribuito. |
Anche
se la concessione sovrana a Iacopo Carafa fu subordinata al pagamento
di quattromila ducati, di fatto si può ammettere un intento di liberalità
da parte del re, che, in un momento particolarmente delicato per le
sue finanze, richiese il versamento di una somma non eccessiva rispetto
alla consistenza dei feudi concessi al Carafa, destinatario della benevolenza
del sovrano anche in altre circostanze. A parte l'arbitraria assunzione
del titolo di conte di Matera, in tempi diversi Iacopo assunse incarichi
e onorificenze quali il governatorato generale della fanteria e della
cavalleria in Calabria e il cavalierato dell'Ordine dell'Armellino (o
Ermellino), istituito da Ferrante nel 1463 e riservato a quegli esponenti
della nobiltà - non solo regnicola - di provata fede aragonese; non
per nulla il motto recitava: «Malo mori, quam foedari».
Morto nel 1489, in età avanzata, Iacopo fu sepolto
nella chiesa di S. Maria Assunta in Castelvetere, dove tuttora si conserva
il suo splendido monumento sepolcrale recante l'epigrafe dettata dall'erede
Vincenzo.
Se furono indubbiamente esigenze di carattere militare
a spingere il Carafa in Calabria, non escluderei invece un suo personale
orientamento nella scelta dei feudi concessigli da re Ferrante, feudi
nei quali egli dovette risiedere, come dimostrano la circostanza della
sua sepoltura e le tensioni fra lui stesso e l'università di Castelvetere,
oggetto di una lettera del 1487 con la quale il re invitava Giovanni,
secondogenito di Iacopo, a recarsi nella capitale per tentare di comporre
la controversia. Evidentemente la permanenza del feudatario nel capoluogo
dello stato, alla quale gli abitanti non erano abituati quando esso
apparteneva al Centelles, causava molti disagi e contrasti su consuetudini
locali o usi civici di sfruttamento delle risorse territoriali che assumevano
vitale importanza per l'economia e la sopravvivenza stessa delle popolazioni.
Un episodio così motivato si verificò, nella seconda metà del secolo
seguente, a Motta Gioiosa, allora posseduta da Michele Caracciolo, il
quale fu costretto a transigere una lunga lite con l'università ed a
sottoscrivere delle «pandette» che ogni anno giurava solennemente
di rispettare.
Sepolcro di Iacopo Carafa
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Sepolcro
di Iacopo Carafa
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Sepolcro
di Iacopo Carafa
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Sepolcro
di Iacopo Carafa, Caulonia (Reggio Calabria) Chiesa di S. Maria
Assunta
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I
rapporti tra i Carafa e Roccella dovevano però essere ancora più
tesi, se non altro perché codesta terra aveva da difendere i vantaggiosi
capitoli sottoscritti in Motta Gioiosa il 31 gennaio 1445 fra il
viceré di Calabria, Alfonso de Cardona, ed i sindaci dell'università.
Tali capitoli erano stati disattesi in un punto essenziale che prevedeva
la perpetua demanialità di Roccella, la quale invece nel 1462 rientrò,
con Castelvetere, nello stato feudale del Centelles, tornato alla
fedeltà regia, e nel 1479 passò sotto il dominio di Iacopo Carafa.
Quest'ultimo, dopo la sua morte, fu accusato di aver illecitamente
espropriato, col concorso dei figli e della nuora «madamma
Joannella», tanti cittadini di «multe possessione case
et feudi», nonché di aver commesso crudeltà di ogni genere,
«arrobbamenti et sassinamenti». Di fronte a un quadro
tanto catastrofico, non c'è da stupirsi se a tali denunce Castelvetere
(e, da quanto si desume, anche Roccella) faceva seguire la richiesta
di demanialità accolta dal sovrano: siamo nel 1490,
quando era già decorso un |
anno
dalla morte di Iacopo, al quale sarebbe dovuto succedere
il figlio Vincenzo. Per motivi di opportunità la successione, come vedremo,
fu solo ritardata e nel frattempo Vincenzo Carafa, prediletto quanto il
padre da re Ferrante, ricevette, a mio parere come risarcimento, l'investitura
formale della baronia di Grotteria (1489), che gli venne poi confermata
da re Federico (1496) con clausola sospensiva, essendo ancora in vita
il titolare di quel feudo, Marino Correale, morto nel 1499 o nel 1501.
Vincenzo
Carafa
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Decorsi
gli ultimi e relativamente tranquilli anni di Ferrante I (
1494), il Regno precipitò nella più grave crisi politica e militare
attraversata dalla dinastia aragonese. Ora, pur tenuta nel debito
conto la situazione in cui versavano le varie province in seguito
alla calata di Carlo VIII, mi sembra opportuno un richiamo ai contrasti
fra i Carafa e Castelvetere per spiegare come mai non solo quest'ultima,
ma anche la terra di Roccella opponessero una fiera resistenza agli
aragonesi, di cui i Carafa erano vassalli fedelissimi.
Di tale ostile atteggiamento fanno fede alcune
interessanti lettere degli ultimi re della dinastia: il 5 dicembre
1495, Ferdinando II scriveva da Gaeta al cardinale d'Aragona, luogotenente
generale, a cui, facendo riferimento alla precorsa corrispondenza,
annunciava l'arrivo di Vincenzo Carafa in Calabria e ordinava di
adoprarsi con ogni mezzo per immetterlo nel possesso delle sue terre
al più presto: «che senza dimorare niente,habbia da ritornare
da Noi, che ne have- |
mo
da servire in cose molto necessarie, et concernente al stato, e servitio
nostro».
Anche re Federico manteneva con Vincenzo un rapporto privilegiato,
ma da una lettera (Foggia, 7 marzo 1496) al proprio fratello Cesare d'Aragona
apprendiamo che la consegna dei feudi al Carafa era subordinata al versamento,
da parte del vassallo, di tremilacinquecento ducati, di cui duemilacinquecento
subito e i restanti mille entro otto mesi dall'immissione in possesso.
Analogo avviso indirizzava da Napoli, il 24 giugno, al cardinale d'Aragona,
ma sul finire del 1496 le due terre si opponevano ancora all'ingresso
degli ufficiali del feudatario. Il 10 ottobre, infatti, re Federico scriveva
al castellano, al capitano e agli altri ufficiali feudali rinnovando l'ordine
dell'immissione in possesso; inoltre, sotto la stessa data, comunicava
a Consalvo di Cordova di aver «confermato, et de novo concesso per
se, suoi heredi, e successori, in perpetuum, le Terre de Castellovetere,
et la Roccella, con loro Castelli, et Fortizze, al Mag. Vincenzo Carafa
nostro Majordomo, et Consigliero dilecto», precisando in un poscritto
che dalla concessione s'intendeva escluso il feudo «Favaco».
Castello di Roccella
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Castello
di Roccella
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Non
ometteva, inoltre, l'ordine di provvedere ad eseguire l'immissione
in possesso. In termini più o meno analoghi il re si esprimeva col
cardinale d'Aragona, suo nipote (lettera da Napoli, 26 ottobre 1496),
fin quando, in data 4 dicembre, non assumeva un tono perentorio
ordinando a quest'ultimo l'espugnazione militare delle due terre:
«Noi intendimo, che quelli della Roccella, e di Castellovetere
stanno più duri, et pertinaci a non volir farsi dare alla fidiltà
nostra, però da nostra parti ordinati all'Ill. Iacopo Conti, che
subito si conferisca all'espugnatione di dette Terre...».
Non sappiamo quando i ribelli cedettero alla pressione dell'esercito,
ma c'è da presumere che l'azione militare avesse conseguito ben
presto lo |
scopo,
sia perché la situazione generale volgeva ormai in favore degli aragonesi
sia perché i due feudi non si opponevano direttamente alla Corona, ma
all'ingresso di un feudatario non gradito. Sarebbe quindi interessante
verificare se Castelvetere e Roccella avessero accolto Menelao di Taranto,
nominato dal re capitano di quelle terre in data 2 giugno 1490, cioè mentre
durava ancora il braccio di ferro tra le università e gli ufficiali regi
incaricati della consegna dei feudi al titolare dell'investitura.
Vincenzo Carafa poteva infine assumere il potere in
Castelvetere e Roccella, due terre di una certa consistenza, che circa
mezzo secolo prima, nel 1443, avevano rispettivamente una popolazione
di 352 e 172 fuochi. A Roccella, poi, era attivo un importante fondaco,
della cui attività è rimasta traccia in alcuni documenti che registrano
i movimenti del ferro e del sale. Durante l'occupazione
francese del Regno, Castelvetere rimase fedele agli aragonesi. Infatti,
dopo la battaglia di Terranova (26 dicembre 1502), Ugo de Cardona, che
aveva battuto il filofrancese .conte Onorato Sanseverino, occupava la
città, «ma veggendo, che non era luoco fidarsene, se ne passa a
Castelvetere, detto anticamente Caulonia, che era più commodo, et più
securo». Da ciò desumerei che il Carafa, almeno in questa fase della
guerra, fosse riuscito a mantenere il controllo dei propri feudi, luoghi
di sicuro ricovero per le truppe aragonesi.
Castello
di Castelvetere
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Nella
documentazione superstite si coglie qualche aspetto del carattere
di Vincenzo, uomo più timorato di Dio rispetto al padre lacopo.
Forse, avrà soltanto raccolto un'eco della cultura controriformata,
ma pare che egli, da buon cristiano, si dedicasse a qualche opera
pia. Intitolandosi conte di Grotteria, che dopo la morte di Marino
Correale era passata sotto il suo dominio, Vincenzo, nel 1516, scrisse
una lettera a Leone X per sostenere la santificazione di Francesco
di Paola, rendendo testimonianza di alcuni miracoli «con gl'occhi
proprii, visti da esso Vincenzo, e da Berardina Siscara sua Consorte».
Sembrerebbe però più importante e meritorio il suo impegno per la
riedificazione «dalla prima pietra» del monastero delle
Donne Monache di Castelvetere, denominato di S. Maria di Valverde
dell'Ordine degli Eremitani di S. Agostino. Dopo averlo ricostruito,
il Carafa lo dotò di cento ducati annui sui
pagamenti fiscali di Roccella e Castelvetere, motivando il
suo gesto «perché l'elemosine, e carità sono salubre remedio
dell'anime, che per esse se acquista la
|
Gloria
di Vita eterna, e bastano estinguere li peccati». Un'indagine storica
particolare ci dirà, prima o poi, se il feudatario avesse perseguito con
altrettanto zelo dei fini umanitari nell'ambito della società laica, della
cui gestione egli aveva la principale responsabilità. Certo, non si può
dimenticare un suo grande, ma poco sbandierato merito nei confronti del
Mezzogiorno: quando nel 1510 gli spagnoli tentarono d'introdurre nel Regno
la famigerata Inquisizione, Vincenzo Carafa (insieme al principe di Bisignano
e al conte di Policastro) si pose in testa alla classe baronale per scongiurare
il gravissimo pericolo, affrontato e sventato dallo schieramento compatto
di tutte le componenti della società meridionale.
Giovan
Battista Carafa I° Marchese di Castelvetere
|
Il
16 settembre 1526 si aprì la successione in favore del figlio Giovanbattista,
del quale è nota la fedeltà, all'imperatore Carlo V, subito dimostrata
durante l'invasione del Lautrec, quando il Carafa mise a disposizione
di Camillo Pignatelli, conte di Borrello, seicento fanti e duecento
cavalieri, i quali, guidati da Lorenzo Siscar, diedero un contributo
determinante per il recupero delle terre di Castel Minardo e Montesoro,
presso Monteleone, occupate dalle truppe francesi. Sempre al seguito
del conte di Borrello, il Carafa si recò in Puglia spendendo 13.000
ducati per il mantenimento di tremila fanti e cinquanta cavalli.
In compenso della sua fedeltà, Carlo V, con privilegio del 5 giugno
1530, concesse al Carafa il titolo di marchese di Castelvetere.
Questi non mancò di prestare un nuovo contributo in occasione dell'impresa
di Tunisi (1535), per la quale fece costruire due galere che inviò
al comando di Marco Marchese, figlio del barone di Scaletta. |
Deve
considerarsi inattendibile la fonte alla quale attinse l'Aldimari, secondo
la quale le navi sarebbero sparite in una tempesta presso La Goletta.
Le due galere, infatti, costate ben 18.000 ducati, conclusasi l'impresa,
furono donate all'imperatore dal Carafa. L'anno successivo partecipò personalmente
all'invasione della Provenza con un grosso contingente armato a proprie
spese e poco dopo l'imperatore gli conferì il titolo, di Commendatore
di Santiago, uno dei tredici della Monarchia, e la grandezza di Spagna,
attribuita ad altri nobili del Regno fra i quali ricordiamo il principe
di Squillace e il duca di Castrovillari.
Anche da papa Clemente VII Giovanbattista ottenne numerosi privilegi,
dispense e iuspatronati; donò un bosco feudale, detto Ninfo, alla certosa
di S. Stefano del Bosco; ebbe conferma del privilegio della "estrazione"
del ferro e dell'acciaio dai porti di Reggio (1531) e di Roccella (1533);
acquistò quasi milleduecento ducati sopra i fiscali di Grotteria, Castelvetere
e Roccella; ampliò lo stato acquistando dal conte di Maddaloni, con patto
di retrovendita dopo cinque anni, la terra di Casaldone (1533) e comprando
(1549) la terra di S. Giorgio e altri feudi (Brusciano, Scisciano, Ottaiano
e Mariglianella). Non si dimentichi, infine, che il matrimonio con Lucrezia
Borgia d'Aragona, figlia di Goffredo, principe di Squillace, gli aveva
portato, oltre che un incremento di prestigio, una dote di diecimila ducati.
La sua casa, dunque, si poteva considerare una fra le più ragguardevoli
della Calabria Ulteriore, anche se lo stato carafesco non aveva ancora
raggiunto le proporzioni assunte nel secolo XVII. Il primo marchese di
Castelvetere potrebbe anche essere stato sensibile alle esigenze dei propri
vassalli, dal momento che, nel 1529, a fronte delle continue e micidali
incursioni "turchesche", ottenne di murare il casale di Siderno. Nello
stesso anno poté inoltre istituire una fiera annuale in Motta Gioiosa
per otto giorni a partire dal primo di agosto, ed è noto quanta importanza
rivestissero le fiere, anche per il territorio gravitante intorno al centro
fieristico, ai fini delle transazioni commerciali operate su prodotti
agricoli, manufatti e bestiame d'allevamento.
Torre
Camillari
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Tutti
i meriti militari e civili del marchese, tutti i titoli ed i privilegi
da lui guadagnati, non furono però sufficienti ad evitargli, nel
1548, l'arresto e il trasferimento nelle carceri della Vicaria in
seguito a una denunzia per gravissimi abusi sui vassalli. Nell'istruttoria,
promossa dal viceré, la confessione fu estorta sotto tortura e la
condotta del marchese, così come attestata dai verbali, appare giustificabile
soltanto con una volontà suicida, considerato il rigore che caratterizzò
il governo del viceré Toledo. Come osserva il Caracciolo, la condotta
del Carafa si può dunque spiegare «se si considera che i crimini
in massima parte furono da lui commessi prima e per poco tempo dopo
l'avvento del Toledo» e che furono perseguiti con lo scopo
di rendere manifesta l'intenzione di combattere fermamente l'arbitrio
feudale. Non sorprende dunque la condanna a morte inflitta al Carafa,
benché questi avesse speso ben trentamila ducati per corrompere
centinaia di persone, funzionari statali e anche taluni dei ricorrenti,
tranne il coriaceo Vincenzo De Mauro, |
che
non rimise mai la querela pur subendo un internamento di sette mesi nelle
carceri di Castelvetere. Infine, nel 1552, «Al marquis de Castillo
Vetere a XVII de diziembre a seys horas de noche le fue cortada la cabega
dentro de la Vicaria» e l'esecuzione suscitò grande scalpore in
tutto il Regno, conseguendo, in fondo, lo scopo a cui mirava il potere
centrale, che aveva voluto l'esecuzione quale monito ed esempio diretti
soprattutto alla nobiltà.
La vicenda personale di Giovanbattista Carafa proiettò
dei sinistri riflessi sulla compagine del suo stato feudale. Prima dell'arresto
il marchese era indebitato per 20.000 ducati, saliti a 60.000 nel 1552.
La grave crisi economica non fu evitata dallo smembramento della contea
di Grotteria avviato nel 1540 con la vendita dei casali di Mammola e Agnana
a Giovanni Galliego e proseguito nel 1549 con l'alienazione di Siderno
a Pirro de Loffredo e nel 1550 con la cessione di Martone e S. Giovanni
a Ferrante Capano.
Girolamo
Carafa
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La
drammatica fine di Giovanbattista, al quale fu rifiutata la grazia,
non costituì un ostacolo per la successione del suo primogenito
Girolamo, destinatario di una difficile eredità, Intanto, già nel
1553, dovette sostenere, nella terra di Roccella, l'assedio di Dragut,
che, con un'imponente flotta, rientrava a Costantinopoli da Procida.
Ma, respinti con successo gli ottomani, il Carafa si ritrovò con
i problemi patrimoniali insorti dalla triste vicenda paterna, che
trovarono una soluzione estrema, sollecitata dai creditori e principalmente
da Marcantonio de Loffredo (che vantava un credito di 24.000 ducati),
con la vendita all'incanto nel S.R.C. della terra di Grotteria,
con i feudi di Romano e S. Maria della Grazia, acquistata nel 1559
dallo stesso de Loffredo per quarantaduemila ducati, col diritto
di rivendica dei casali di Mammola e Agnana dal Galliego, e di Martone
e S. Giovanni dagli eredi di Ferrante Capano, ai quali, come si
è detto, |
erano
stati alienati rispettivamente nel 1540 e nel 1550. Ancor prima della
vendita di Grotteria, gran parte delle rendite di Motta Gioiosa erano
state cedute a Marcantonio de Loffredo e Giovan Vincenzo Crispano, i
quali ottennero dal S.R.C. che il Carafa rinunciasse al patto di ricompra
e che Motta Gioiosa fosse venduta all'asta, dove fu aggiudicata a Gennaro
Caracciolo.
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