Caulonia 2000

   
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I Carafa, dinastia di feudatari per Castelvetere
Tratto dal libro: "I Carafa in Calabria: dai primi feudi al principato"
di Roberto Fuda


 

   Parte Prima - Le Origini 

              


Opera di Don Biagio Altimari

   Mosso soprattutto da intenti celebrativi e sensibile alle esigenze del suo nobile committente, l'Aldimari impostava la genealogia di casa Carafa con un abile ma artefatto nesso tra Filippo I Carafa e «l'ultimo» duca di Napoli, Sergio VI, il quale, sconfitto dal re di Sicilia Ruggero II, sarebbe fuggito a Pisa, città di origine della propria famiglia.
   In realtà, ultimo duca di Napoli fu quel Sergio VII che, dopo complesse vicende, si sottomise a Ruggero II per poi cadere nella battaglia del 29 ottobre 1137 contro Rainulfo Drengot, conte di Alife. Con la sua morte si estinse la casa ducale napoletana che tanto fieramente si era opposta alla conquista normanna del Mezzogiorno d'Italia. Dunque il Filippo I Carafa di cui parla l'Aldimari, ignoto a tutte le fonti coeve, deve considerarsi nato dalla fantasia e dalle necessità del genealogista, che si servì di documenti apocrifi mai individuati da quanti li cercarono con le fasulle segnature archivistiche da lui indicate.
   Risulta altrettanto inattendibile una spiegazione etimologica del cognome fondata su un processo associativo pseudoscientifico adottato da quanti
accettano ingenuamente l'episodio di cui sarebbe stato protagonista un esponente della pisana famiglia Sigismondi, il quale avrebbe salvato la vita all'imperatore Enrico VI. Questi, abbracciando il proprio salvatore, gli avrebbe detto: «Cara fe' mi è la tua», e da allora i Sigismondi, in ricordo di tale nobile e grata espressione, avrebbero mutato il proprio cognome in Carafa! Non meno destituita di fondamento è un'altra nota etimologia secondo la quale i Carafi sarebbero i Carae filii, cioè i discendenti di Cara, moglie di Stefano Sigismondi.
   È chiaro che tali leggende genealogiche e onomastiche nascono e s'impongono laddove esiste una oggettiva difficoltà di ricostruzione storica, difficoltà nella quale tuttavia s'imbatte il genealogista nel momento in cui tenta di "sfondare" certi limiti cronologici oltre i quali difficilmente può disporre di validi supporti documentari. Il caso dei Carafa non si sottrae alla regola generale e gli esiti delle ricerche non sempre sono stati univoci e immuni dalle influenze della tradizione.
    In un recente studio sull'araldica carafesca si trova riassunto lo status quaestionis e l'autore si attiene all'opinione più nota e accreditata secondo la quale i Carafa si sarebbero distaccati da quei Caracciolo che, al momento di una importante ramificazione della famiglia, avrebbero assunto la denominazione di Caracciolo Rossi per distinguersi dai Caracciolo Pisquizi e dai Caracciolo Cassano. In tale contesto, il cognome Carafa rappresenterebbe la stabilizzazione del nomignolo attribuito, nella prima metà del XIII sec., a quei Caracciolo che erano concessionari in Napoli, della gabella sul vino volgarmente detta "campione della carafa".
Lo Scandone individuava in Gregorio il capostipite dei Caracciolo Carafa, anche se
tale perso -


Trionfo con lo stemma dei Carafa
naggio gli era noto solo come Caracciolo. L'ipotesi che individua in lui il primo titolare del soprannome è fondata sul fatto che, in un documento del gennaio 1269, il figlio Tommaso, partigiano di Corradino, è chiamato «de Caraffa».Dallo stesso documento apprendiamo che Gregorio possedeva dei beni feudali presso Napoli, Acerra e Aversa; circostanza, quest'ultima, confermata da un documento più antico (redatto a Pascarola, presso Aversa, nel maggio 1186) in cui trovo Gregorius Carazulo quale teste di una donazione al vescovo aversano.
   L'aggiunta del soprannome al cognome dinastico si poteva rilevare nelle epigrafi sepolcrali di almeno quattro antichi esponenti della famiglia sepolti nella chiesa napoletana di S. Domenico Maggiore, dove, nella cappella Carafa della Spina, tuttora si conserva una quinta epigrafe, quella di Letizia Caracciolo, vedova di Filippo Caracciolo Carafa defunta nel
nel 1340: Híc. requiescit co(r)p(us) d(omi)ne Leticie. Caraczole. prius. relicte. quondam. d(omi)ni. Philippi. Caraczoli. dicti Carrafa.l et/ s(ecund)o/ do/mi/ni./ Ba/r(t)h/ol/om/lei./ Bulchani. quae. obiit. anno. D(omi)ni. M.CCC.XXXX. die. ultimo. mens(is). ianuarii. VIII. ind(ictione). cui(ius). a(n)i(m)a. req(u)iescat. in pace. amen.
   Alle prove recate dai monumenti epigrafici il Borgia aggiunge considerazioni di carattere araldico, formulando un'attendibile ipotesi secondo la quale l'arma dei Carafa (uno scudo di rosso a tre fasce d'argento) si sarebbe distaccata da quella dei Caracciolo Rossi (uno scudo bandato d'argento e di rosso) «durante il periodo in cui il fenomeno araldico andava affermandosi in Europa».
   Rimossa così l'artefatta ascendenza dai duchi di Napoli e individuato in Gregorio il probabile capostipite dei Caracciolo detti Carafa, è possibile seguire la sua discendenza (secondo la ricostruzione dello Scandone) attraverso il primogenito Bartolomeo, signore di Ripalonga, padre di un Filippo dal quale nacque Bartolomeo II, marito di Teodora del Gaudio di Sessa. Questo secondo Bartolomeo non va confuso col suo omonimo figlio primogenito, Bartolomeo III, a cui vennero affidati importanti incarichi dalla corte angioina e concesse fin dal 1296 (poco dopo la morte del padre) le rendite di S. Caterina, in Calabria, che ammontavano a dieci once. Con la moglie, Mabilia di Montefalcione, Bartolomeo III procreò numerosi figli, fra i quali il primogenito Andrea sposò Maria di Cornay divenendo, grazie a lei, signore di Forli. Da tre dei figli di costoro discesero la linea dei conti di S. Severina (dal figlio Galeotto, † 1415), le linee dei duchi di Forli e di Montenero (dal figlio Carlo, † 1415) e quella dei conti di Grotteria (dal figlio Iacopo). Quest'ultima, che è la linea primogenita, si trapiantò in Calabria con Iacopo di Onofrio (a sua volta figlio del suddetto Iacopo), il quale, nella guerra sostenuta da Ferrante I d'Aragona contro Giovanni d'Angiò e i baroni ribelli, con in testa il marchese di Cotrone, Antonio Centelles, ebbe modo di distinguersi quale comandante di un forte contingente militare lasciato di stanza in Calabria dal re nel 1459, e soprattutto per avere occupato, alcuni anni dopo, l'importante piazzaforte di Vasto, catturando Antonio Caldora, conte di Trivento, che vi si era asserragliato. Durante la sua prima permanenza in Calabria acquistò Gioia per 3.000 ducati, ma la sua ascesa si verificò nel 1479, quando Ferrante d'Aragona gli espresse la propria gratitudine investendolo di Castelvetere, Roccella e feudo Savato (o Favaco), che si aggiunsero a tre castelli in Abruzzo ereditati dal padre.


Jacopo Carafa I° Signore di Castelvetere
È noto che i feudi di Castelvetere e Roccella rientravano nello stato feudale, poi smembrato, di Antonio Centelles; eppure qualche studioso considera Galeotto Baldassino feudatario di Roccella prima dell'avvento dei Carafa. Personalmente, preferisco attenermi a quei documenti che segnalano il Baldassino quale provveditore dei castelli del regno di Sicilia ultra Farum nonché castellano del castello e della terra di Castelvetere. L'equivoco è probabilmente sorto a seguito della 'pubblicazione, da parte del Pontieri, dell'atto della provvisoria restituzione al Centelles di tutti i feudi che componevano il suo stato (1462), fra i quali erano comprese le «terre di Castelvetere et Roccella, quali si teneano per galeotto Baldaxino». Ma un altro documento del 1452 chiarisce in modo inequivocabile che il Baldassino deteneva Castelvetere (e senza dubbio anche Roccella, detta, nello stesso documento, Roccella di Castelvetere) a titolo di governatore e non di utilis dominus, titolo che in nessun atto gli viene attribuito.

   Anche se la concessione sovrana a Iacopo Carafa fu subordinata al pagamento di quattromila ducati, di fatto si può ammettere un intento di liberalità da parte del re, che, in un momento particolarmente delicato per le sue finanze, richiese il versamento di una somma non eccessiva rispetto alla consistenza dei feudi concessi al Carafa, destinatario della benevolenza del sovrano anche in altre circostanze. A parte l'arbitraria assunzione del titolo di conte di Matera, in tempi diversi Iacopo assunse incarichi e onorificenze quali il governatorato generale della fanteria e della cavalleria in Calabria e il cavalierato dell'Ordine dell'Armellino (o Ermellino), istituito da Ferrante nel 1463 e riservato a quegli esponenti della nobiltà - non solo regnicola - di provata fede aragonese; non per nulla il motto recitava: «Malo mori, quam foedari».
   Morto nel 1489, in età avanzata, Iacopo fu sepolto nella chiesa di S. Maria Assunta in Castelvetere, dove tuttora si conserva il suo splendido monumento sepolcrale recante l'epigrafe dettata dall'erede Vincenzo.
    Se furono indubbiamente esigenze di carattere militare a spingere il Carafa in Calabria, non escluderei invece un suo personale orientamento nella scelta dei feudi concessigli da re Ferrante, feudi nei quali egli dovette risiedere, come dimostrano la circostanza della sua sepoltura e le tensioni fra lui stesso e l'università di Castelvetere, oggetto di una lettera del 1487 con la quale il re invitava Giovanni, secondogenito di Iacopo, a recarsi nella capitale per tentare di comporre la controversia. Evidentemente la permanenza del feudatario nel capoluogo dello stato, alla quale gli abitanti non erano abituati quando esso apparteneva al Centelles, causava molti disagi e contrasti su consuetudini locali o usi civici di sfruttamento delle risorse territoriali che assumevano vitale importanza per l'economia e la sopravvivenza stessa delle popolazioni. Un episodio così motivato si verificò, nella seconda metà del secolo seguente, a Motta Gioiosa, allora posseduta da Michele Caracciolo, il quale fu costretto a transigere una lunga lite con l'università ed a sottoscrivere delle «pandette» che ogni anno giurava solennemente di rispettare.


Sepolcro di Iacopo Carafa


Sepolcro di Iacopo Carafa


Sepolcro di Iacopo Carafa


Sepolcro di Iacopo Carafa, Caulonia (Reggio Calabria) Chiesa di S. Maria Assunta
I rapporti tra i Carafa e Roccella dovevano però essere ancora più tesi, se non altro perché codesta terra aveva da difendere i vantaggiosi capitoli sottoscritti in Motta Gioiosa il 31 gennaio 1445 fra il viceré di Calabria, Alfonso de Cardona, ed i sindaci dell'università. Tali capitoli erano stati disattesi in un punto essenziale che prevedeva la perpetua demanialità di Roccella, la quale invece nel 1462 rientrò, con Castelvetere, nello stato feudale del Centelles, tornato alla fedeltà regia, e nel 1479 passò sotto il dominio di Iacopo Carafa. Quest'ultimo, dopo la sua morte, fu accusato di aver illecitamente espropriato, col concorso dei figli e della nuora «madamma Joannella», tanti cittadini di «multe possessione case et feudi», nonché di aver commesso crudeltà di ogni genere, «arrobbamenti et sassinamenti». Di fronte a un quadro tanto catastrofico, non c'è da stupirsi se a tali denunce Castelvetere (e, da quanto si desume, anche Roccella) faceva seguire la richiesta di demanialità accolta dal sovrano: siamo nel 1490, quando era già decorso un
anno dalla morte di Iacopo, al quale sarebbe dovuto succedere il figlio Vincenzo. Per motivi di opportunità la successione, come vedremo, fu solo ritardata e nel frattempo Vincenzo Carafa, prediletto quanto il padre da re Ferrante, ricevette, a mio parere come risarcimento, l'investitura formale della baronia di Grotteria (1489), che gli venne poi confermata da re Federico (1496) con clausola sospensiva, essendo ancora in vita il titolare di quel feudo, Marino Correale, morto nel 1499 o nel 1501.


Vincenzo Carafa
   Decorsi gli ultimi e relativamente tranquilli anni di Ferrante I († 1494), il Regno precipitò nella più grave crisi politica e militare attraversata dalla dinastia aragonese. Ora, pur tenuta nel debito conto la situazione in cui versavano le varie province in seguito alla calata di Carlo VIII, mi sembra opportuno un richiamo ai contrasti fra i Carafa e Castelvetere per spiegare come mai non solo quest'ultima, ma anche la terra di Roccella opponessero una fiera resistenza agli aragonesi, di cui i Carafa erano vassalli fedelissimi.
   Di tale ostile atteggiamento fanno fede alcune interessanti lettere degli ultimi re della dinastia: il 5 dicembre 1495, Ferdinando II scriveva da Gaeta al cardinale d'Aragona, luogotenente generale, a cui, facendo riferimento alla precorsa corrispondenza, annunciava l'arrivo di Vincenzo Carafa in Calabria e ordinava di adoprarsi con ogni mezzo per immetterlo nel possesso delle sue terre al più presto: «che senza dimorare niente,habbia da ritornare da Noi, che ne have-
mo da servire in cose molto necessarie, et concernente al stato, e servitio nostro».
  Anche re Federico manteneva con Vincenzo un rapporto privilegiato, ma da una lettera (Foggia, 7 marzo 1496) al proprio fratello Cesare d'Aragona apprendiamo che la consegna dei feudi al Carafa era subordinata al versamento, da parte del vassallo, di tremilacinquecento ducati, di cui duemilacinquecento subito e i restanti mille entro otto mesi dall'immissione in possesso. Analogo avviso indirizzava da Napoli, il 24 giugno, al cardinale d'Aragona, ma sul finire del 1496 le due terre si opponevano ancora all'ingresso degli ufficiali del feudatario. Il 10 ottobre, infatti, re Federico scriveva al castellano, al capitano e agli altri ufficiali feudali rinnovando l'ordine dell'immissione in possesso; inoltre, sotto la stessa data, comunicava a Consalvo di Cordova di aver «confermato, et de novo concesso per se, suoi heredi, e successori, in perpetuum, le Terre de Castellovetere, et la Roccella, con loro Castelli, et Fortizze, al Mag. Vincenzo Carafa nostro Majordomo, et Consigliero dilecto», precisando in un poscritto che dalla concessione s'intendeva escluso il feudo «Favaco».


Castello di Roccella

Castello di Roccella
Non ometteva, inoltre, l'ordine di provvedere ad eseguire l'immissione in possesso. In termini più o meno analoghi il re si esprimeva col cardinale d'Aragona, suo nipote (lettera da Napoli, 26 ottobre 1496), fin quando, in data 4 dicembre, non assumeva un tono perentorio ordinando a quest'ultimo l'espugnazione militare delle due terre: «Noi intendimo, che quelli della Roccella, e di Castellovetere stanno più duri, et pertinaci a non volir farsi dare alla fidiltà nostra, però da nostra parti ordinati all'Ill. Iacopo Conti, che subito si conferisca all'espugnatione di dette Terre...». Non sappiamo quando i ribelli cedettero alla pressione dell'esercito, ma c'è da presumere che l'azione militare avesse conseguito ben presto lo
scopo, sia perché la situazione generale volgeva ormai in favore degli aragonesi sia perché i due feudi non si opponevano direttamente alla Corona, ma all'ingresso di un feudatario non gradito. Sarebbe quindi interessante verificare se Castelvetere e Roccella avessero accolto Menelao di Taranto, nominato dal re capitano di quelle terre in data 2 giugno 1490, cioè mentre durava ancora il braccio di ferro tra le università e gli ufficiali regi incaricati della consegna dei feudi al titolare dell'investitura.
    Vincenzo Carafa poteva infine assumere il potere in Castelvetere e Roccella, due terre di una certa consistenza, che circa mezzo secolo prima, nel 1443, avevano rispettivamente una popolazione di 352 e 172 fuochi. A Roccella, poi, era attivo un importante fondaco, della cui attività è rimasta traccia in alcuni documenti che registrano i movimenti del ferro e del sale.    Durante l'occupazione francese del Regno, Castelvetere rimase fedele agli aragonesi. Infatti, dopo la battaglia di Terranova (26 dicembre 1502), Ugo de Cardona, che aveva battuto il filofrancese .conte Onorato Sanseverino, occupava la città, «ma veggendo, che non era luoco fidarsene, se ne passa a Castelvetere, detto anticamente Caulonia, che era più commodo, et più securo». Da ciò desumerei che il Carafa, almeno in questa fase della guerra, fosse riuscito a mantenere il controllo dei propri feudi, luoghi di sicuro ricovero per le truppe aragonesi.


Castello di Castelvetere
   Nella documentazione superstite si coglie qualche aspetto del carattere di Vincenzo, uomo più timorato di Dio rispetto al padre lacopo. Forse, avrà soltanto raccolto un'eco della cultura controriformata, ma pare che egli, da buon cristiano, si dedicasse a qualche opera pia. Intitolandosi conte di Grotteria, che dopo la morte di Marino Correale era passata sotto il suo dominio, Vincenzo, nel 1516, scrisse una lettera a Leone X per sostenere la santificazione di Francesco di Paola, rendendo testimonianza di alcuni miracoli «con gl'occhi proprii, visti da esso Vincenzo, e da Berardina Siscara sua Consorte». Sembrerebbe però più importante e meritorio il suo impegno per la riedificazione «dalla prima pietra» del monastero delle Donne Monache di Castelvetere, denominato di S. Maria di Valverde dell'Ordine degli Eremitani di S. Agostino. Dopo averlo ricostruito, il Carafa lo dotò di cento ducati annui sui pagamenti fiscali di Roccella e Castelvetere, motivando il suo gesto «perché l'elemosine, e carità sono salubre remedio dell'anime, che per esse se acquista la
Gloria di Vita eterna, e bastano estinguere li peccati». Un'indagine storica particolare ci dirà, prima o poi, se il feudatario avesse perseguito con altrettanto zelo dei fini umanitari nell'ambito della società laica, della cui gestione egli aveva la principale responsabilità. Certo, non si può dimenticare un suo grande, ma poco sbandierato merito nei confronti del Mezzogiorno: quando nel 1510 gli spagnoli tentarono d'introdurre nel Regno la famigerata Inquisizione, Vincenzo Carafa (insieme al principe di Bisignano e al conte di Policastro) si pose in testa alla classe baronale per scongiurare il gravissimo pericolo, affrontato e sventato dallo schieramento compatto di tutte le componenti della società meridionale.


Giovan Battista Carafa I° Marchese di Castelvetere
   Il 16 settembre 1526 si aprì la successione in favore del figlio Giovanbattista, del quale è nota la fedeltà, all'imperatore Carlo V, subito dimostrata durante l'invasione del Lautrec, quando il Carafa mise a disposizione di Camillo Pignatelli, conte di Borrello, seicento fanti e duecento cavalieri, i quali, guidati da Lorenzo Siscar, diedero un contributo determinante per il recupero delle terre di Castel Minardo e Montesoro, presso Monteleone, occupate dalle truppe francesi. Sempre al seguito del conte di Borrello, il Carafa si recò in Puglia spendendo 13.000 ducati per il mantenimento di tremila fanti e cinquanta cavalli. In compenso della sua fedeltà, Carlo V, con privilegio del 5 giugno 1530, concesse al Carafa il titolo di marchese di Castelvetere. Questi non mancò di prestare un nuovo contributo in occasione dell'impresa di Tunisi (1535), per la quale fece costruire due galere che inviò al comando di Marco Marchese, figlio del barone di Scaletta.
Deve considerarsi inattendibile la fonte alla quale attinse l'Aldimari, secondo la quale le navi sarebbero sparite in una tempesta presso La Goletta. Le due galere, infatti, costate ben 18.000 ducati, conclusasi l'impresa, furono donate all'imperatore dal Carafa. L'anno successivo partecipò personalmente all'invasione della Provenza con un grosso contingente armato a proprie spese e poco dopo l'imperatore gli conferì il titolo, di Commendatore di Santiago, uno dei tredici della Monarchia, e la grandezza di Spagna, attribuita ad altri nobili del Regno fra i quali ricordiamo il principe di Squillace e il duca di Castrovillari.
  Anche da papa Clemente VII Giovanbattista ottenne numerosi privilegi, dispense e iuspatronati; donò un bosco feudale, detto Ninfo, alla certosa di S. Stefano del Bosco; ebbe conferma del privilegio della "estrazione" del ferro e dell'acciaio dai porti di Reggio (1531) e di Roccella (1533); acquistò quasi milleduecento ducati sopra i fiscali di Grotteria, Castelvetere e Roccella; ampliò lo stato acquistando dal conte di Maddaloni, con patto di retrovendita dopo cinque anni, la terra di Casaldone (1533) e comprando (1549) la terra di S. Giorgio e altri feudi (Brusciano, Scisciano, Ottaiano e Mariglianella). Non si dimentichi, infine, che il matrimonio con Lucrezia Borgia d'Aragona, figlia di Goffredo, principe di Squillace, gli aveva portato, oltre che un incremento di prestigio, una dote di diecimila ducati. La sua casa, dunque, si poteva considerare una fra le più ragguardevoli della Calabria Ulteriore, anche se lo stato carafesco non aveva ancora raggiunto le proporzioni assunte nel secolo XVII. Il primo marchese di Castelvetere potrebbe anche essere stato sensibile alle esigenze dei propri vassalli, dal momento che, nel 1529, a fronte delle continue e micidali incursioni "turchesche", ottenne di murare il casale di Siderno. Nello stesso anno poté inoltre istituire una fiera annuale in Motta Gioiosa per otto giorni a partire dal primo di agosto, ed è noto quanta importanza rivestissero le fiere, anche per il territorio gravitante intorno al centro fieristico, ai fini delle transazioni commerciali operate su prodotti agricoli, manufatti e bestiame d'allevamento.


Torre Camillari
   Tutti i meriti militari e civili del marchese, tutti i titoli ed i privilegi da lui guadagnati, non furono però sufficienti ad evitargli, nel 1548, l'arresto e il trasferimento nelle carceri della Vicaria in seguito a una denunzia per gravissimi abusi sui vassalli. Nell'istruttoria, promossa dal viceré, la confessione fu estorta sotto tortura e la condotta del marchese, così come attestata dai verbali, appare giustificabile soltanto con una volontà suicida, considerato il rigore che caratterizzò il governo del viceré Toledo. Come osserva il Caracciolo, la condotta del Carafa si può dunque spiegare «se si considera che i crimini in massima parte furono da lui commessi prima e per poco tempo dopo l'avvento del Toledo» e che furono perseguiti con lo scopo di rendere manifesta l'intenzione di combattere fermamente l'arbitrio feudale. Non sorprende dunque la condanna a morte inflitta al Carafa, benché questi avesse speso ben trentamila ducati per corrompere centinaia di persone, funzionari statali e anche taluni dei ricorrenti, tranne il coriaceo Vincenzo De Mauro,
che non rimise mai la querela pur subendo un internamento di sette mesi nelle carceri di Castelvetere. Infine, nel 1552, «Al marquis de Castillo Vetere a XVII de diziembre a seys horas de noche le fue cortada la cabega dentro de la Vicaria» e l'esecuzione suscitò grande scalpore in tutto il Regno, conseguendo, in fondo, lo scopo a cui mirava il potere centrale, che aveva voluto l'esecuzione quale monito ed esempio diretti soprattutto alla nobiltà.
    La vicenda personale di Giovanbattista Carafa proiettò dei sinistri riflessi sulla compagine del suo stato feudale. Prima dell'arresto il marchese era indebitato per 20.000 ducati, saliti a 60.000 nel 1552. La grave crisi economica non fu evitata dallo smembramento della contea di Grotteria avviato nel 1540 con la vendita dei casali di Mammola e Agnana a Giovanni Galliego e proseguito nel 1549 con l'alienazione di Siderno a Pirro de Loffredo e nel 1550 con la cessione di Martone e S. Giovanni a Ferrante Capano.


Girolamo Carafa
   La drammatica fine di Giovanbattista, al quale fu rifiutata la grazia, non costituì un ostacolo per la successione del suo primogenito Girolamo, destinatario di una difficile eredità, Intanto, già nel 1553, dovette sostenere, nella terra di Roccella, l'assedio di Dragut, che, con un'imponente flotta, rientrava a Costantinopoli da Procida. Ma, respinti con successo gli ottomani, il Carafa si ritrovò con i problemi patrimoniali insorti dalla triste vicenda paterna, che trovarono una soluzione estrema, sollecitata dai creditori e principalmente da Marcantonio de Loffredo (che vantava un credito di 24.000 ducati), con la vendita all'incanto nel S.R.C. della terra di Grotteria, con i feudi di Romano e S. Maria della Grazia, acquistata nel 1559 dallo stesso de Loffredo per quarantaduemila ducati, col diritto di rivendica dei casali di Mammola e Agnana dal Galliego, e di Martone e S. Giovanni dagli eredi di Ferrante Capano, ai quali, come si è detto,

erano stati alienati rispettivamente nel 1540 e nel 1550. Ancor prima della vendita di Grotteria, gran parte delle rendite di Motta Gioiosa erano state cedute a Marcantonio de Loffredo e Giovan Vincenzo Crispano, i quali ottennero dal S.R.C. che il Carafa rinunciasse al patto di ricompra e che Motta Gioiosa fosse venduta all'asta, dove fu aggiudicata a Gennaro Caracciolo.


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I Carafa, dinastia di feudatari per Castelvetere
Tratto dal libro: "I Carafa in Calabria: dai primi feudi al principato" - CORAB
di Roberto Fuda


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