Sullo
stesso tema un'altra nenia veniva eseguita per tutto il periodo
di Avvento:
"Allestimundi
cari amici,
ca su jorni di Natali
oh chi festa, oh chi trumbali
e groglia Patri,
allu celu gran festa si faci.
Jamu alla chjesa e cantamulu ancora
E la terra ciò chi ci duna di rosi e hjuri.
E' nesciutu lu Redenturi
Porta groglia e porta vita,
e li grazi c'annui 'ndi faci
porta groglia e porta vita.
Porta groglia pe' li boni,
pe' li mali lu soi aiutu.
Tutti chidi chi l'hannu perdutu
Lu jirunu a trovari.
Ha lasciatu na bona via,
ma lu celu non era via,
ca lu fici illu
Non guardati ch'è piccirillu
Ch'esti grandi, onnipotenti
è sicuru ed assistenti finu alla morti.
E' nesciutu di menzanotti
friddu e nudu e poverellu
e tuttu rispettusellu 'nta la pagghja
fu fasciatu 'nta na tuvagghja,
fu fasciatu cu veru amuri.
La sua Mamma cu tantu splenduri
lu stringia a lu so'pettu.
Oh divinu mio pargulettu
Li sant'angeli calaru
e a Maria la cumbitarunu 'nta na capanna
e lu celu chi chjovia manna
chida notti disijata
e l'erba era argentata
e scurria meli
risplendenti jamu a lu celu
risplendenti jamu alla grutta
risplendenti è l'aria tutta,
e Maria matri amorosa,
nui pregamu alli gran Santi
viva Diu e tutti li Santi."
La
medesima tenerezza affiora in un altro canto popolare, che assume
sempre più le caratteristiche di una simpatica filastrocca:
"Bombinuzzu
di docu fora
venitindi a casa mia
ca ti conzu lu letticedu
'nta sta povera anima mia.
Ti lu conzu d'icona d'oro,
venitindi gran tisoru
bambinuzzu di supra lu celu
accoppatu cu lu velu
e la menti si risbigghja.
Si lu pigghja cu lu voli
Bombinuzzu arrobba cori
Bombinuzzu meu pulitu
abitanti di la luna
e mandatimi sonnu in celu,
pe' l'amuri di Maria
si tu non mi lu mandi
eu non ti tegnu 'n sinu
e poi miu picciottinu
ca cu ttia vorrai jocari.
Jocamu a chi jocamu
e jocamu o mio diletto.
'nta na scorza di nucilla
'nc'è na naca piccirilla
c'annacava lu Missia
ch'era figghju di Maria.
In fine due ultime creazioni, molto simili tra di loro, conservando
tutte le proprietà delle filastrocche infantili, sanno
ricreare l'aria di festa tipica di quei santi giorni:
I
Maria lavava
Giuseppi stendia.
Lu figghju ciangia
ca friddu 'ndavia.
Zittu me'figghju
c'adessu ti pigghju.
Di latti ti dugnu
ma pani non c'è.
A nivi supa i munti
cadia du celu.
Maria cu so' velu
copria Gesù."
II
"Maria lavava
Giuseppi lamprava.
Ninnillu ciangìa
ca latti non avìa.
Ccittu ninnillu
ca ora ti pigghju.
Ti fazzu la ninna
e ti tornu a curcà.
A
coronamento del periodo natalizio per il giorno di capodanno
sul far del mezzogiorno si assisteva alla particolare e originale
processione del "Bambinuzzu supa
a palla". Con questa espressione in Caulonia, ancora
oggi, si identifica la statua lignea di "Gesù
Bambino sovrastante il globo terracqueo sorretto da due angeli".
La
statua nel corso dei secoli ha subito diverse ridipinture
e la sostituzione sempre in legno del Bambinello.Pare che
la scultura fosse di proprietà dei padri domenicani,
ordine detentore della chiesa, prima del passaggio di quest'ultima
all'Arciconfraternita del SS. Rosario. Sullo scannulo sembrano
librarsi i due leggiadri angioletti reggenti la sfera della
terra. Entrambi nudi, solo nella parte bassa sono amorevolmente
avvolti da panneggi che sanno terminare in graziosi svolazzi.I
puttini, dai bei riccioli e dalle fattezze grassocce, sono
modellati con vezzoso gusto Rococò; i delicati ombelichi
sui teneri ventri, i visetti che finiscono nella perfetta
curva del mento e le gambette, di cui una scompare tra le
nuvole, tutte espressioni della tipica motilità infantile,
stanno, altresì, a testimoniare la sicura e raffinata
arte dell'ignoto artista.Vestito con abiti di stoffa appare
il Redentore Infante, che con un piede rimane in equilibrio
sopra il mondo, mentre con la paffutella mano benedice l'intero
universo, redento dall'amore di bambino.
Un
mantello di seta rosso rifatto e una veste bianca, anch'essa
restaurata di recente, completano il suo abbigliamento. La mantellina
viene impreziosita da semplici decorazioni e da galloni in oro;
la tunica, arricchita sul davanti da un damasco con tralci e
fiori d'oro, ha come polsini due fini merletti. La testa presenta
occhi di vetro, parrucca lunga di veri capelli ed è cinta
da tiara in argento. Siamo di fronte al culto del Bambinello
Divino che dal Monte Carmelo in Terrasanta si diffuse in tutto
il mondo cristiano e soprattutto in quello iberico. Con molta
probabilità tale devozione è giunta a noi con
la dominazione spagnola. Processione delicata e discreta quella
che il primo gennaio di ogni anno, ancora oggi, si consuma nelle
cerchia di un esiguo gruppo di cauloniesi. Per tradizione è
la processione dei bambini che vengono invitati ad indossare
i paramenti da "fratello". Tale usanza venne sancita
dall'Arciconfraternita nel regolamento del 1929, in cui si stabilì:
"che per la festa del Bambino
Gesù in Capod'anno, la processione venga fatta con soli
confratelli dai cinque ai Dodici anni appunto per praticare
il bel motto di Gesù: 'Lasciate che i pargoli vengano
a me'." Processione di bambini era questa che
si avviava in tono minore, anzi intimo, subito dopo mezzogiorno
del primo dell'anno e dopo un breve tragitto per le vie adiacenti,
essa faceva rientro in chiesa.
Rito
molto antico, anche questo, e quasi certamente legato alle funzioni
religiose dei padri domenicani; di conseguenza la brevità
della cerimonia che la caratterizzava, come se fosse una processione
intra moenia riservata agli appartenenti dell'ordine religioso.
Il Divino Infante rientrava al Rosario, ma la nostra magica
stagione non conosceva ancora fine; ben altri sei giorni di
intensa festa bisognava consumare. Si attendeva l'Epifania,
o meglio "i vattisimi".
Per quella data i Magi avevano percorso la loro lunga strada
e guidati dalla stella cometa, erano giunti alla grotta; quindi
ogni bambino si prendeva la briga di accostare all'imbocco del
"Sacro Antro"
i propri pupazzetti, i quali erano meglio conosciuti, come ancora
una volta ci rammenta O. Di Landro, con il termine più
efficace di "papàtuli".
Per la sera del sei gennaio tutto era pronto per la cerimonia
di addio. Anche questa volta si trattava di un semplice rito
familiare, in cui spesso il più piccolo di casa aveva
il compito di togliere Gesù Bambino dal presepe e accostandolo
di bocca in bocca con un bacio dava appuntamento alle festività
dell'anno successivo. Si! erano quest' ultimi giorni di festa
che vedevano tutta la nostra gente esultante. Del resto, ancora
non erano stati consumati tutti i dolcini preparati con tanta
cura durante i giorni antecedenti il dì della Santa Vigilia.
Tutta
la nostra pasticceria era casereccia (panettoni e spumanti non
avevano preso il loro posto). Naturalmente era la "Pitta
i San Martinu" a costituire il "pezzo-
forte". Essa prende nome, probabilmente dal
protettore di ogni "beone",
il Santo che sa tramutare ogni mosto in vino e, appunto, da
un processo di ebollizione del mosto si ricava il "vino
cotto", elemento principe di questa nostra tipica
schiacciata. Tale dolce, ancora oggi, sa prendere la graziosa
forma di stella dalle molte punte o, meglio, ricorda il disegno
del cosiddetto "fiore spagnolo"
e su di esso si evidenzia la maestria di ogni mamma che mette
tanta cura nella decorazione. In tutte queste forme sembra,
ancora una volta, emergere la componente della nostra cultura
figurativa arabo- ispanica che giust'appunto negli arabeschi
seppe dare una nota altamente raffinata. Era la sfoglia croccante
a dare la struttura, ma il suo sapore fruttato, tipico di un
dolce secco, veniva affidato ad un impasto di fichi secchi (fica
tosta), noci, uva sultanina (passuli), mandorle (ammenduli),
lavorati con il vino cotto, già messo da parte fin dall'ultima
vendemmia.
Alla
"Pitta i San Martinu",
regina della pasticceria cauloniese si affiancavano le "pignolate"
e le "cicerate".
Le prime, di origine siciliana, non erano altro che un assemblaggio
di palline fatte con farina, zucchero, uova e liquore, cotte
nell'olio e ricoperte da miele locale. Le "cicerate"
si ottenevano usando una purea di ceci mista a cioccolato che
farciva una specie di fagottino a mo' di panzarotto. Le "cicerate",
ultimate, venivano ricoperte anch'esse da un dolcissimo miele
liquefatto. Una notte particolare era quella del cinque gennaio,
la notte della Befana, quando ogni bimbo non andava a letto
senza aver appeso la sua calza per ricevere con i semplici doni
un bel pezzo di carbone.
Ancora
Santa Claus, Babbo Natale, non aveva varcato l'Atlantico per
giungere fino a noi; perciò anche a Caulonia la Befana
portava via tutte le feste. In giornata del sette gennaio si
smontava ogni cosa, solo presso alcune famiglie, come nelle
chiese, si sceglieva di lasciare il presepe fino al due febbraio,
giorno della candelora, quando trascorsi i quaranta giorni di
purificazione Gesù viene presentato al Tempio. A questo
punto le statuine dei pastori venivano riposte nello scatolone
e un bel pizzico di malinconia soleva porre fine alla nostra
tradizionale simpatica storia.
Un
sentito ringraziamento a:
Franco Amato, Luigi Briglia/A.R.P.A.,
Gustavo Cannizzaro,
Rinaldo D'Aquino, Pino Lamberto, Lina Lombardi Michelotti,
Ercole Sansalone
per le splendide foto forniteci.
Il nostro più affettuoso pensiero e ringraziamento
per il Prof. Gustavo Cannizzaro
per questo nuovo ed inedito lavoro pubblicato sulle nostre
pagine.
Ci auguriamo che tutti questi scritti sinora pubblicati
possano essere raccolti
ed inseriti in un unico volume, da distribuire nelle scuole
del nostro territorio
per far conoscere, tenere vivo, apprezzare, la cultura e
il folklore delle nostre terre.
U
sei i Nicola, l'ottu i Maria... U vinticincu lu bellu Misìa;
ovvero La
grande attesa per il Natale cauloniese.
di
Gustavo Cannizzaro www.caulonia2000.it
- Marzo 2002