Una
particolare devozione verso la Regina di Crochi era da parte
di tanta nostra gente di campagna, quando la loro sì piccola
economia veniva intaccata con l’ammalarsi di un loro animale:
maiale, capra, vitellino. Spesso esso costituiva l’unica risorsa
e ci si rivolgeva alla Madonna per ottenere un’immediata guarigione.
Per grazia ricevuta, veniva impastata farina e olio per ricavarne
un pane a forma dei vari animali. Tali pani zoomorfi come occhi
avevano due semi di fagioli e per bocca un legnetto. Il tutto
veniva collocato in una cesta costruita con virgulti ancora
verdi di ginestra e quindi portati in chiesa come offerta alla
Vergine di Crochi. Una sorta di cantilena in vernacolo, piuttosto
rozza ed elementare nella forma espressiva e metrica, ci testimonia
come questo culto mariano sia strettamente legato al luogo e,
nel darci notizia nella riedificazione della chiesetta in loco
più elevato in seguito alla piena della fiumara, che la distrusse
completamente, ci informa del rifiuto di una famiglia abbiente
cauloniese di concedere il suolo per costruirla ex novo e dell’ostilità
esistente tra “forisi” e “pajisani”:
“E la chiesa ‘nta
la hjiumara,
e lu hjiumi si la
levau.
Matri mia si ‘ndavia
annegatu,
alli Vignali la ‘ndannu
portatu.
Da stacìa, da lu
casinu,
da stacìa di poverinu,
da stacìa d’incolarata,
ca di fumu era affumicata.
Poi scriviri a ‘lli
Campisi,
fussi bonu pe ’ffari
la Chjiesa.
Li Campisi n’ accettaru
A tutti quanti ‘nci
la negaru
Poi scriviu lu parentatu,
chista è ‘lla chiavi
di subitu e jatu.
Quando esciu di lu
casinu,
cu nu bellu arrisu
finu
e l’arcipreviti benadicia
e ‘lla Madonna pe
la strata jia.
Quando alla chiesa
vinni arrivari
na missa cantata
’nci vozzi cantari,
“vinni” Madonna mia,
pemmu u vi viju
ca siti ‘nta sa Chjiesa
vui assulata.
Allu pajisi non volisti
jiri,
ca Vergini di Crochi
voi chiamata”
Fra
le altre cose, alla Madonna di Crochi ci si rivolgeva anche
per vegliare sui nostri soldati in guerra e rendere possibile
il ritorno dei prigionieri alle loro case, come ci testimonia
la supplica che segue:
“Madonna mia di Crochi
vui vi partiti e
jiati
e ndi portati li
nostri sordati
ndi li portati di
notti e di jiornu
e ppemmu fannu nu
bellu ritornu
specialimenti li
prigionieri
chidi chi sunnu alli
terri stranieri”
Infine
un ultimo componimento formato da cinque quartine nella
sua ingenuità e forte semplicità, ancora una volta, ci aiuta
a capire come è intenso e grande l’amore portato verso il luogo
che accoglie tale culto antico:
“Maria di Crochi
piena di bravura
in mezzo all’aria
che uno respira
come hai creato l’intera
natura
che sempre sta sospesa
e sempre gira.
Ed il sole con tanta
calura
che ci accompagna
da mattina a sera;
poi viene la notte
e tutto scura
luce solo la luna
quando è chiara
Creasti la montagna
nell’altura
Valli e pianura con
l’alberatura
E un’altra cosa più
potente ancora
L’acqua che scende
da ogni fiumara.
Acqua che scende
a mare non a misura
Sempre quel livello
resta para
e
poi creasti la cosa più cara
la donna dote della
Tua figura.
Preghiamola di cuore
‘sta Signora.
Preghiamola di cuore.
Ella ci paga.
A chi gli chiede
le grazie ci dona
Agli ammalati il
cuore ci sana
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Questi
i suoi aspetti religiosi, la sua Madonna, la sua storia, ma Crochi
oltre il suo rito liturgico ha sempre voluto segnare un appuntamento
annuale a cui ogni buon cauloniese non poteva sottrarsi. Il buon
vino, la carne di “crapa” e la martellante tarantella facevano
da padrone e per l’intera giornata coinvolgevano tutti i partecipanti.
Tutto il greto del fiume era disseminato da “barracchi”
pronte ad accogliere ogni visitatore che, tracannando quarti di
vino, discuteva di ogni cosa e spesso “chiudeva” un affare. L’odore
di carne bollita, preparata a piccoli tocchi “tozza”, in
ragù succulenti si spandeva per ogni dove, ma veramente regina
e avvincente, fino a riempire di sé ogni moto dell’anima, era
la tarantella. Quest’ultima anche presso la nostra gente era ritmo,
musica, danza. La tarantella di Crochi era lo stesso ballo che
ogni vero calabrese aveva saputo conoscere e apprezzare a Polsi
e negli impervi luoghi d’Aspromonte. Una tarantella, quella nostra,
dura, istintiva che sapeva trarre origine dagli ossessionanti
colpi di tamburelli e dai suoni aspri e dolci, talvolta mielati,
di antiche zampogne e più moderni organetti.
La
tarantella aspromontana si è sempre distinta da tutte quelle ballate
nella vasta area del nostro mezzogiorno per la sua natura selvaggia,
anzi direi, tribale. Essa, oltre al suo potere magico, è un misto
di sacro e profano; si danza in onore della divinità e si danza
per corteggiare ed essere corteggiati, si scioglie un voto e nel
contempo si lancia uno sguardo d’intesa. Tale danza vuole rappresentare
il corteggiamento e talvolta la contesa della donna da parte di
rivali, ma di essa ne lasciano testimonianza i nostri scrittori
più cari, quali appunto C. Alvaro, S. Strati e F. Perri, che in
un passo veramente memorabile del suo capolavoro, “Emigranti”,
così scrive <<Il suonatore…stringeva
sul ventre un enorme otre dal quale pendevano cinque canne traforate
di diversa lunghezza: due
oltrepassavano tutto l’otre e gli arrivavano ai ginocchi; due
erano più corte e l’ultima, a forma di un piccolo oboe, senza
fori, emetteva una sola nota, tenuta, d’un suono nasale come una
specie di nota base. Le dita del suonatore si muovevano con una
vicenda quasi uniforme sui buchi delle due canne medie, il suo
capo e la testa oscillavano in cadenza secondo il ritmo del suono,
come quelli di un fantoccio meccanico.
Ad
intervalli apriva le labbra intorno al cannello, aspirava profondamente
poi le richiudeva e il collo gli si gonfiava, rigato di grosse
vene, nello sforzo, accanto a lui un giovane pastore…batteva il
ritmo su un tamburello largo quanto uno staccio di farina, tenendolo
vicino all’orecchio come per gustarne l’accordo. In mezzo al cerchio
una coppia ballava. La donna…ballava scalza, con dei piccoli piedi
larghi, impolverati, e teneva costantemente gli occhi bassi, con
la serietà di chi compie un rito religioso. Ogni tanto li alzava
in faccia al ballerino arditamente, come per un invito, con un
lampeggiare e un socchiudere deduttivo, poi li riabbassava, e
seguitava la sua danza semplicissima. I piedi, l’uno davanti all’altro,
schizzavano dei passetti brevi nella polvere, le mani si appoggiavano
sui fianchi, ora con le palme ora col dorso, Le braccia si incurvavano
ad arco come quelle delle anfore, il corpo oscillava lento, con
movimenti voluttuosi dei fianchi e delle anche. Alcune volte le
mani sollevavano pei lembi un piccolo grembiule rosso, e lo tendevano
verso il danzatore, come per ricevere un’offerta; altra volta
rapidamente si levavano in aria, e facevano schioccare le dita,
con un movimento incitante, come si usa coi cani per invitarli
alla caccia. La danzatrice seguitava impassibile, senza segno
di stanchezza…Ballava dalla mattina, e aveva stancato quattro
uomini. Il ballerino sembrava invece morso dalla tarantola; scamiciato,
con al collo un fazzoletto bianco,…balzava con mille sgambetti
e mulinelli intorno alla donna, dimenando la testa come per fissarla
negli occhi, mettendole attorno al capo le braccia a corona, facendo
con la mano il gesto di chi traccia un circolo intorno all’oggetto
amato, per indicarne il possesso esclusivo. E poi girava su se
stesso come una trottola, preso da una specie di delirio, e batteva
le palme, e cacciava dei gridi acuti, come lo squittire di una
bestia selvatica. Quando un ballerino aveva danzato per un certo
tempo l’uomo del tamburello che funzionava da maestro di ballo,
si levava in piedi, faceva un po’ a largo un giro di danza e con
un cavalleresco inchino congedava il danzatore, per invitare un
altro nella brigata>>.
Il brano è mirabilmente analizzato dallo studioso Goffredo Plastino
nel suo lavoro <<Canti, suoni, spari. La musica tradizionale
e l’ambiente sonoro a Polsi nella letteratura calabrese>>
pubblicato da Laruffa editore con gli atti del convegno <<Santa
Maria di Polsi – Storia e pietà popolari>>.
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