Questa
sezione raccoglie scritti, articoli, storie, usi e costumi
della tradizione cauloniese
Con
i primi di settembre, Crochi era centro di attrazione di ogni
vero cauloniese. In quei giorni tutta la nostra gente si godeva
il bel periodo che altro non era se non la stagione da noi conosciuta
con l’espressione “tempu i mutazioni d’aria”. Infatti dopo i
festeggiamenti dell’Assunta e la grande fiera di mezz’agosto,
quando i primi acquazzoni spezzavano il regno del solleone,
ci si preparava ad andare a trascorrere alcune settimane nelle
ridenti località delle colline circostanti il pianoro di Caulonia
e così i suggestivi posti di Schiavello, Scrongi, Treddonne,
Sorgente, Quartato, Pezzolo, Rose, Pittella e Castania pullulavano
d’intensa e gaia vita.
Ogni
strada di campagna, i vari viottoli e i più sperduti sentieri
si animavano del transito di muli ed asini che carichi di masserizie
rendevano possibile una permanenza umana nelle “casede”,
casupole rurali. Si ! ogni uomo, ogni donna e tutti i bambini
del nostro centro storico erano presi da quella frenesia che
portò il più grosso autore veneziano a scrivere la brillante
e gioiosa commedia “le smanie per la villeggiatura”. Presso
la nostra gente era la collina il luogo ideale dove passare
le vacanze, quand’ancora la voglia di mare si faceva sentire
con minore slancio. La meravigliosa distesa azzurra, quale luogo
di svago, conosciuto dall’aristocrazia inglese alla fine del
settecento e dall’alta borghesia nord-europea a cavallo tra
ottocento e novecento, farà sentire il suo forte richiamo a
sempre più larghe fasce di popolazione anche in Italia negli
anni trenta e quaranta e diverrà meta di villeggiatura come
fenomeno di massa con le migliorate condizioni socio-culturale
degli italiani: il boom economico. Quest’ultimo permise anche
a tanti emigrati cauloniesi l’acquisto della loro prima utilitaria
da sfoggiare, durante le conquistate ferie, nel proprio paese
per accompagnare anche parenti ed amici sull’assolata spiaggia
della Marina.
Ogni
“caseda” era costruita con pietre legate tra loro da argilla
(tutto materiale reperito in loco) e coperta da un tetto di tegole
(chiamate “ceramide”), che poggiavano su castagnole (muraletti),
dette “cervuni”. Veramente molto povere apparivano queste
nostre abitazioni di campagna! Solo alcune di esse riuscivano
ad avere pareti intonacate, almeno nella facciata interna, ed
una contro-soffittatura con canne abilmente intrecciate, i “cannizzi”,
che alla bisogna servivano anche come dispensa per conservare
frutti da essiccare per la stagione invernale (sorbe, uve, origano,
noci e soprattutto fichi). E non solo, essi spesso erano le mete
favorite, se non il regno, di tanti simpatici “suricedi”,
che terrorizzavano non poche nostre giovani donne.
Ogni
tetto andava fiero del suo “fanò”, una tegola messa di
traverso e facilmente scorrevole che consentiva un’entrata d’aria
e la fuoruscita del fumo, essendo la fornacetta sottostante sprovvista
di cappa. “L’istricu”, la pavimentazione in terra battuta,
o addirittura di creta compressa, poteva essere spazzato con le
classiche scope di ramoscelli di “bruvera” (erica), e certamente
tutto ciò non favoriva una condizione ottimale della vita.
Il
più delle volte l’intera costruzione si riduceva ad un unico locale
adibito ad ogni uso domestico, e pertanto i servizi igienici venivano
ricavati con capannelle di frasche ed erano usati solo dalle donne,
mentre gli uomini, ritenendo più utile provvedere direttamente
alla concimazione del terreno, erano soliti andare “arretu
a sipala”. Nella nostra società contadina nulla andava perduto
e tutto veniva comunque riutilizzato tornando in ciclo; non esisteva
di certo quel problema dell’eliminazione dei rifiuti che purtroppo
oggi vessa la civiltà dei consumi (anche se oggi non possiamo
negare le migliori condizioni igienico-sanitarie). Spartana era
la vita che in questi posti si conduceva e altrettanto sobrio
e francescano era il mobilio che arredava i miseri abituri: un
letto, un tavolo e una cassapanca.
La
cassapanca, “u casciuni”, serviva da ripostiglio per ogni cosa
(dalla biancheria ai prodotti alimentari d’uso quotidiano); il
tavolo, detto “tundinu” dalla sua forma circolare, era
un piccolo piano rotondo poggiante su tre piedi tra essi incrociati;
altre volte si trattava di un classico tavolo denominato “buffetta”,
intorno alla quale si disponevano delle rustiche sedie. Il letto,
piuttosto ampio, (spesso era unico e quindi destinato ad ospitare
l’intera famiglia), si componeva di una sorta di due cavalletti
di ferro, “trispita”, su cui poggiavano delle assi in legno,
“tavuli du lettu”, sormontate dal saccone ripieno di “frusti”,
pannocchie di granturco (la federa di questo materasso sulla sua
superficie presentava delle fenditure longitudinali, consentendo
così la rimozione quotidiana delle foglie). Le lenzuola erano
quelle tessute con la fibra di ginestra, a dire il vero non proprio
delicate, ma le nostre nonne assicuravano che il loro uso frequente
le avrebbe rese sempre più morbide. Spesso completava l’arredamento
“u stipu a muru”, una nicchia suddivisa con ripiani di
tavola e talvolta socchiusa da antine in legno. Nella forma e
nell’uso essa ricorda l’hazana araba e non a caso in zone molte
vicine a Caulonia questa sorta di semplice credenza, in cui conservare
le rozze posate e tutte le terraglie, veniva chiamata “gazzana”.
Piuttosto
ricca, invece, si presentava la collezione delle “terrecotte”
destinate ai molteplici usi. Si avevano ceramiche che servivano
per la cottura dei cibi: testu, pignatu, tella; altre destinate
all’approvvigionamento idrico alle fonti, perché le case non erano
dotate di acqua corrente: cortara, bumbula, limba, cuccuma
(naturalmente ogni ragazzino aveva la sua bumbuleda); ed
infine i vari vasi per portate e conserve: grossi piatti, suppera,
‘nzalatera, salaturi, cugnetti, vacili, manali, e giarretti.
Anche
nelle case di campagna completavano l’ampia batteria casalinga
il simpatico “lavataru” e “u zzipeppi”, o “pitali”,
caratteristico vaso da notte simile a “u cantaru” siculo
di circa trenta centimetri, tutto smaltato a forma cilindrica
con orlo rigirato a mo’ di falda per consentire una comoda seduta.
Interessanti le forme di tutti questi oggetti di creta e per ognuno
di essi è possibile trovare il giusto antenato nella ricchissima
tipologia greca che, attraverso l’artigianato bizantino prima
e arabo-normanno poi, giunge fino a noi, quando la plastica, ormai,
è l’unico materiale utilizzato nella produzione in serie, facendoci
perdere, ancora una volta, un forte legame con il passato. Anche
nella Calabria ultra si avevano dei veri “atelliers” per la lavorazione
della creta e in provincia di Reggio Calabria si registravano
importanti centri di lavorazione e di modellatura nella zona tirrenica:
Seminara, (a dire il vero, ancora oggi molto fiorente) e due centri
per la zona jonica, Roccella e Gerace (in quest’ultimo posto si
sta facendo di tutto per rilanciarlo).
Su
queste scuole G. Polimeni così scrive:
<< nella provincia reggina vi è una netta differenziazione
cromatica nella produzione: i “pezzi” di Seminara sono variopinti
anche se limitatamente a diverse tonalità di verde, azzurro, marrone
e soprattutto un originalissimo giallo-arancio. La ceramica jonica
(Gerace – Roccella) è invece grezza e solo raramente indulge a
qualche leggero tono di bleu e di rosso, in perfetta aderenza
ai canoni artistici locresi. I motivi di questa differenza, oltre
che storicamente, vanno ricercate nella varietà delle componenti
minerali e vegetali del territorio, più consistente e geologicamente
eterogenea del versante tirrenico, in contrapposizione alla monotonia
delle argillose e terziarie fascie collinari della jonica>>.
Infine in un angolo di tante “casede” vi era quello che
nei moderni monolocali viene definito zona cottura: esso consisteva
in un focolare rudimentale con affiancata una fornacetta, composta
da due mattoni su cui appoggiare il vario pentolame.
Talvolta
la zona cottura era ricavata in un modo molto semplice con una
costruzione aggettante al muro esterno dell’abitazione. L’uscita
di ciascuna “caseda” veniva chiusa da una porta in legno,
che il più delle volte era divisa in due parti con un taglio orizzontale;
in modo che spesso era possibile chiudere la sua porta inferiore,
“porta i sutta”, lasciando aperta tutta la zona superiore,
“portedu” e così quest’ultima poteva fungere da vera presa
d’aria. Questo tipo di porta detta “mulinara”, trova la
sua derivazione in quelle usate in tante abitazioni ebraiche.
Nel
corso del sedicesimo secolo per ordine del potere centrale del
Regno di Spagna tutti gli uomini di fede giudaica, oltre a dovere
vivere nei ghetti, venivano limitati anche nei loro movimenti,
dovendo rincasare ad un'ora molto presta. All’uopo la gente d’Israele,
sempre acuta per uso d’intelletto, ricorse ad uno stratagemma:
divisione delle porte con tagli orizzontali che consentivano un
uso di aria libera anche se in zona limitata.
Ben presto tale consuetudine si propagò in tanti ghetti del meridione
di cultura ispanica; non a caso, la porta descritta nel nostro centro
storico, era diffusa nella zona Spiruni – San Biasi, luogo, secondo
la tradizione da noi denominato “judeca”, altrimenti detta
la giudecca di Castelvetere. Ogni porta veniva chiusa “cu serragghju”,
una robusta spranga che rendeva sicura ogni abitazione.
Talvolta
alle serrature munite di chiave esterna si aggiungeva un altro sistema
di chiusura, ma interno alla porta: “u mandali”, nottolino
di legno girante intorno ad un perno.
Questa
la “caseda” tipo nella sua versione più semplice, ma le
nostre località rurali erano disseminate da altre abitazioni a
più locali; talvolta esse presentavano un piano rialzato “soprana”,
a cui si accedeva tramite una scala esterna in pietra oppure con
una interna spesso in legno per il tramite di una botola detta
“u catarràttu”. In questo caso i pavimenti potevano essere
in legno o rivestiti con un grezzo cotto, poggiante su solai costruiti
a volta con “i carusedi” (questi erano curiosi mattoni
a forma cilindrica, cavi all’interno e con un foro laterale e
molto richiesti dai bambini per ricavarne simpatici salvadanai).
Infine vi erano le abitazioni rurali della borghesia terriera.
In questi casi si trattava di belle dimore di campagna, luoghi
concepiti per trascorrere piacevoli vacanze e ore serene. Infatti
esse rappresentavano quelle costruzioni che in altre zone d’Italia
e in ambienti più facoltosi erano conosciute con i nomi evocativi
di ville-schifanoie, casalini e casini di campagna.
Nelle
“casede”, invece, la vita che si conduceva era molto semplice
e veramente umile. Oltre a respirare un’aria salubre e a passare
un periodo di quiete, le donne erano tutte prese dai lavori femminili
e dalla raccolta di alcuni frutti o prodotti della terra destinati
ad alimentare la scorta delle conserve invernali.
Sicuramente i fichi occupavano la parte centrale di tali incombenze,
i quali, colti direttamente dall’albero, avevano una fragranza e
un sapore unici. Comunque, la maggior parte di questi saporosi frutti
veniva destinata all’essiccazione al sole e quindi ad essere infornati
sia al naturale, “fica tosti”, sia inficcati alle canne,
“schjocche”. Poi, c’era la conservazione di noci, uve e piante
aromatiche. Gli uomini erano presi dai lavori nei vigneti, mentre
i ragazzi si divertivano in modo semplice, come quando andavano
alla ricerca di una “folia cu potaci” (nido di uccelletti)
o erano intenti a sistemare una “chjancula”, trappola per
catturare piccoli animali; i più abili, talvolta, riuscivano a ghermire
una cicala, costringendola, poi, a frinire. Spesso i fanciulli venivano
impegnati dagli adulti nella raccolta di bacche commestibili o di
“piditi i lupu”, funghi biancastri di forma globosa, così
denominati perché nella loro piena maturazione esplodono silenziosamente
lasciando uscire le spore.
A
sera tutti si univano in un casolare, dove si ascoltavano le filastrocche
più divertanti, le nenie più delicate, ma era, per certo, “u
cuntu”, che ogni brava nonna sapeva raccontare, a calamitare
ogni attenzione. Quindi i vari “badetti”, “i sdraghi”,
“jufà” e “i suricedi” riempivano le testoline dei
più piccoli e assidui ascoltatori.
Una
serata di particolare allegria, destinata a rimanere nei ricordi
più forti di tutto il periodo vacanziero, era sicuramente la vigilia
della festa di Crochi. Essa cadeva sempre il primo sabato dopo
l’otto settembre, giorno consacrato alla natività di Maria. Durante
tale vigilia, grandi e piccoli si davano da fare per montare (allestire)
sulle varie “arie” (aie) i falò ( da noi conosciuti meglio con
il termine: “a luminaria”). Così a sera tutto era uno spettacolo
di fuochi. “L’aria” di Schiavello come quella di Obili,
Popelli, Cufò e quindi Crochi riverberava di tanti luci, riempiendosi
dei crepitii della legna bruciata, di grida esultanti di tanti
bimbi e dei canti e suoni dei villeggianti. Con la vigilia di
Crochi, anche presso la nostra gente iniziava la stagione delle
“luminarie” che, con intervalli alquanto regolari, si ripetevano
la sera precedente la festa della Madonna del S.S. Rosario e la
notte del sette dicembre, vigilia dell’Immacolata. Quest’ultima,
veramente grandiosa e affascinante, si consumava, e ancora oggi
si consuma, sul sagrato della chiesa del Carmine.
Fin
dalla mattina i vecchi fedeli si affaccendavano nel portare una
fascina, iniziando, così, a formare la catasta di legna destinata
a raggiungere anche i quattro, cinque metri; infatti, poi, i ragazzi
si davano un gran da fare ad ingrossare la gran massa di legna,
talvolta con metodi sbrigativi, rubando interi fasci di frasche
già destinate al forno di qualche massaia. Sempre per la vigilia
dell’otto dicembre, si dava fuoco a falò messi su nelle frazioni
di San Nicola e di Focà. Fin da epoche remote gli uomini hanno sempre
avuto un rapporto particolare con questo suggestivo rito.
Già
in Bretagna e Normandia, la casta dei Druidi presiedeva riti di
fuochi sacrali in ricorrenza del solstizio di giugno; si pensava
che durante quella notte fuoriuscissero dalla terra spiritelli,
folletti e streghe, per dare l’avvio all’estate; più tardi il
cristianesimo fece proprie tali tradizioni e sempre in Francia
diede a tale cerimonia il nome di “Lesdes feux de la
Saint-Jean”; nel mondo germanico, ancora oggi, le luminarie
sono collegate alla festività di Pentecoste e perciò esse assumono
valore simbolico, (vogliono rappresentare la lingua di fuoco,
lo Spirito santo che scende sulla testa degli apostoli).
Ma
fu con l’età barocca che gli spettacoli di fuoco si affermarono
sempre di più.Con i falò ed i fuochi di artificio i popoli hanno
sempre festeggiato la nascita di un principino, l’arrivo di un
famoso prelato e la presenza di un uomo di una certa importanza.
Le feste verranno sempre più elargite dal Signore ai propri sudditi
come un momento di gioia collettiva, ma ben presto le manifestazioni
saranno strutturate in modo che i ceti più ricchi si accosteranno
a spettacoli ritenuti di maggiore valenza culturale, come le giostre
e ogni forma di teatro; mentre i ceti meno abbienti saranno spettatori
di manifestazioni più popolari, quali, appunto, le danze campestri,
i fuochi d’artificio e le luminarie. Di luminarie si parlava in
Veneto per l’Epifania, quando si dava fuoco ai roghi di spine,
intorno ai quali ogni bambino saltava al grido “brusa la vecia”
(brucia la vecchia); sempre per questa ricorrenza prendevano fuoco
le cataste di legno in Friuli, mentre per Sant’Antonio Abate,
17 gennaio, sono i “focaracci” e i “focaroni” che
vengono accesi nei crocevia o sui sagrati delle chiese abruzzesi;
questi ultimi erano formati dalle fascine raccolte dai giovani
questuanti; i fasci di canne costituivano l’ossatura delle luminarie
pugliesi, dette “farchie”, ma la regione deputata per questo
tipo di rito sarà sempre considerata la Toscana che, per la sera
di San Giovanni (24 giugno), vedeva in ogni suo crocicchio bruciare
una gran massa di legna; si voleva, così, poter trattenere la
luce diurna dopo il solstizio d’estate che apre il regno della
notte, allungandone via, via la durata.
Settembre,
tempo di vacanza per ogni buon cauloniese ovvero
ritualità e costumanze in onore di S. Maria di Crochi,
festa extra-moenia
di Gustavo Cannizzaro www.caulonia2000.it
- Novembre 2001