Una
seconda leggenda, con momenti talvolta preoccupanti, racconta
come un alto prelato disprezzasse tutta la nostra gente adoratrice
di un "osso di bue" (i
resti mortali di Sant'Ilario allora conservati in un teca
di legno). Pare che in modo repentino il superbo bestemmiatore
sia stato colpito da cecità ad entrambi gli occhi (tale atto
ricorda la "ybris"
classica, che scatena la "nemesis",
l'ira di un dio nei riguardi di colui che osa sfidarlo). La
storia continua col narrarci come l'infelice si sia subito
ravveduto e una volta chiesto umilmente perdono si sia prostrato
innanzi alla sacra reliquia.
Riavuta la vista non solo si preoccupò di diffondere maggiormente
il culto del Santo, ma la santa "ulna"
venne rinchiusa in una teca d'argento. Il reliquario, opera
di un argentiere secentesco, tuttora custodisce ciò che rimane
presso di noi dell'Eremita orientale.
L.
Hjerace così lo descrive: <<…
è a forma di braccio e poggia su di un prisma a base
triangolare incisa e terminante con tre piedini. Su
di una faccia laterale della base è inciso lo stemma
della famiglia Carafa della Spina. Il reliquario è,
con ogni probabilità dono di Carlo Carafa, il quale
prima della nomina a vescovo di Aversa (1651), e poi
cardinale fu arciprete della Chiesa Matrice di Caulonia,
che 'arricchì … di Sacre reliquie ' (Padre Fiore). E'
il Prota a supporre che tra queste sacre reliquie ci
sia stata anche quella del braccio di Sant'Ilarione…
Senz'altro però, il reliquario ricordato dal Frangipane
fu eseguito prima che il Carafa fosse nominato Arcivescovo
di Aversa, infatti lo stemma inciso su uno dei frontespizi
della base è sormontato dalla corona marchesale, altrimenti
vi sarebbe stato inciso il cappello cardinalizio>>.
Da un documento ritrovato da V. Najmo apprendiamo che
già dai primi anni del XVII sec. le Sante Reliquie di
Ilarione, chiuse in una teca di legno, furono consegnate
all'Università di Castelvetere per essere offerte alla
devozione di tutti i fedeli. Veramente straordinario
questo connubio di storia e leggenda; tali documenti,
sicuramente, contribuiscono a rendere sempre più interessanti
le leggende fiorite intorno al Nostro Santo. Anche in
tempi più recenti sono sbocciati fatti prodigiosi sul
nostro grande Protettore. Si narra che nel corso della
seconda guerra mondiale un aeroplano delle forze armate
americane sorvolasse i nostri cieli per sganciare una
bomba sul centro storico di Caulonia, quando i due piloti
furono avvolti da fitta nebbia, sulla quale videro un
"Vecchierello" dalla
lunga barba bianca.
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Caulonia fu risparmiata ancora una volta ad opera del suo potente
Protettore!
Secondo le credenze, numerosi sono gli eventi in cui il Santo
ha steso la Sua mano portentosa sulla popolazione: basta ricordare
terremoti e altre calamità. Ma il fatto che Lo rese definitivamente
popolare presso tutti i nostri contadini fu quello noto come
il miracolo della pioggia. A tal proposito O. Di Landro così
scrive "Il miracolo della pioggia,
operato in vita da Ilarione ad Afroditon (secondo quanto dice
Gerolamo nel cap. 22 della Sua opera) si ripeté a Caulonia
(allora Castelvetere ndr.) il 14 maggio del 1855. per una
straordinaria siccità il popolo desiderò implorare la pioggia
del Santo Protettore, portando in processione fino al romitorio
di San Nicola la reliquia. La processione fu decisa per il
giorno tredici maggio e il 14 la pioggia arrivò puntuale,
secondo la testimonianza dello stesso arciprete Davide Prota,
che viene riportata a pagina 254 delle sue Ricerche Storiche
su Caulonia, edite a Roccella Jonica dalla Tipografia Toscano
nel 1913".
Con tale miracolo, anche il nostro Asceta entrò nel novero
dei santi pluviali della Calabria. Sant'Ilarione, con Sant'Agazio
in Guardavalle, San Nicola in Camini e i Santi Cosma e Damiano
in Riace, nonostante siano tanto invocati per ricevere la
tanto sospirata acqua, non sarebbero esenti da minacce e punizioni
nel caso il miracolo non si realizzasse.
Strani riti questi, ma anche essi ci vogliono riportare indietro
nel tempo, anzi agli albori della nostra civiltà.
Tutto ciò ci spinge, come evidenzia R. Corso, verso consuetudini
più antiche, i riti di epoca pre-cristiana, quando gli idoli,
in caso di non assolvenza, ne subivano le conseguenze. Presso
alcune polis greche, il dio Pan veniva malmenato con la scilla
tutte le volte che il nume non concedeva il suo favore (acqua
in abbondanza). Un rito veramente originale, ancora oggi,
si consuma nel mare di Guardavalle, quando la reliquia di
Sant'Agazio posta in una barca viene sospesa da un religioso
sopra l'acqua del mare pronunciando la formula:
"Santu Agaziu meu,
o mi vagni o ti vagnu.
Si non mi vagni tu, ti vagnu eu.."
Un rito analogo avviene con i Santi Cosma e Damiano nel mare
di Riace:
"Santu Cosimu e Damianu
o m'abbagni o t'abbagnamu.."
E non a caso San Raffaele e Sant'Ilarione vengono definiti
"animalucci d'acqua".
Pare che l'appellativo "animale d'acqua" fosse rivolto dalla
gente di Roccella, tradizionalmente sempre avversa ai cauloniesi.
Come si sa, mentre il roccellese è un pescatore (pisciaru),
che da sempre ha voglia di bel tempo per svolgere bene il suo
lavoro, il contadino di Caulonia era, invece, sempre desideroso
di pioggia abbondante. Da qui la richiesta d'acqua dei cauloniesi
anche con l'intervento miracoloso del suo Santo Protettore e
di conseguenza il nomignolo poco rispettoso da parte del "pisciaru"
roccellese.
In seguito al miracolo della pioggia, anche presso di noi
si ebbe una seconda festa da tenersi ogni terza domenica del
mese di maggio, ma quella che coinvolgeva maggiormente l'intera
comunità cauloniese rimase la festa di ottobre. Essa culminava
nei giorni di sabato e domenica. Il primo giorno dopo la messa
delle sette, il corteo si muoveva e ancora oggi, nonostante
abbia perso molto dell'antico rituale, si muove con l'arciprete
vestito con ricchi paramenti liturgici e portando in mano
il prezioso reliquiario, seguito dalla statua lignea accompagnata
dai "pistunari".
Quest'ultimi, purtroppo da alcuni decenni per sempre scomparsi,
erano simpatiche e originali figure di devoti, intorno ai
quali il Prota scrive una delle sue più belle pagine: "Sono
i pistoni grosse carabine a focone la cui canna non è più
lunga di 60 cm ed il calibro di 3, con i lembi della bocca
arrovesciati all'infuori. La polvere a chilogrammi, portata
ad armacollo dentro zucche vuote, si introduce a manate i
quegli ordigni infernali. Non si sovrappone tappo, ma la polvere
si comprime, ricalcandola con grossi bastoni. Si spara, fermando
il calcio del pistone al fianco e facendo, il "pistonaro",
un giro intorno a se stesso dopo la detonazione. La festa
è una tradizione de' tempi feudali, quando il marchese, feudatario
di Castelvetere, mandava la sua squadra armata per onorare
la reliquia del santo Protettore, che partiva per la montagna.
In questa solennità qualche cosa di selvaggio vi è, e si
conserva come nel cinquecento …, cioè una manifestazione rozza
ed ingenua del sentimento religioso. E' la festa del protettore
S. Ilarione, o San Ilario, come lo dicono i caulonesi … La
mattina di sabato con modesta processione la reliquia, un'ulna
incastonata in un braccio d'argento, (ed oggi anche la statua)
partono dal paese. Alla porta della città il sacerdote celebrante
consegna il prezioso cimelio al sacerdote cui tocca la disagiosa
marcia fino all'eremo; e una gran ressa di popolo si addensa
intorno alla reliquia. Ogni cittadino vuole imprimere un bacio
su quell'osso, quasi dicendo: arrivederci. Buona parte degli
intervenuti torna in città, ma i più divoti, preceduti da
tamburi e cornamuse, proseguino pel santuario. Alla cappella
del Calvario resta l'immagine ischeletrica del Santo ad aspettare
il ritorno del braccio la dimani; il braccio continua ancora
per tre ore, lungo sentieri alpestri e faticosi. E malgrado
la fatica del viaggio quella parte di divoti che lo segue,
canta all'unisono e senza interruzione questo semplice, ma
sentito ritornello
Viva
Ilarione!
Ilarione Viva
Viva Ilarione
E chi lo creò! |
Interpolato
di alcune altre strofe, che il popolino canta a modo di rosario.
All'eremo la giornata si passa ad accumulare ceppi ed altro
combustibile vicino all'ulivo miracoloso, che la sera dovrà
bruciare senza consumarsi; la notte si passa gozzovigliando
con la salsiccia di maiale e col vino- mosto della recente
vendemmia. A mezza ora di notte s'appicca il fuoco alla pira
e di tanto in tanto si balza di soprassalto per lo scoppio
dei sopraggiunti "pistonari", i quali annunziano il loro arrivo
con una formidabile pistonata. La mattina della domenica,
mentre in città fervono i preparativi dell'accoglienza, all'eremo
i "pistonari" avvinazzati, stracchi, e spavaldi, col pistone
ornato di fiori e di ramicelli dell'ulivo miracoloso, si mettono
al corteggio della reliquia che ritorna al paese. In cinque
stazioni prima di arrivare (Gatto, Limbìa, Calvario, Fosso,
Baglio) con fuoco di fila scaricano i loro boccacci, ed essendo
quello il tempo in cui caricano più spietatamente, gittando
a manate la polvere nelle armi, quelle canne, spesso di ferro
fuso, scoppiano, portando via dita, mani, braccia ai malcapitati
"pistonari".
E
non è raro vedere inanzi alla statua marciare rassegnato ed
altero uno di tali mutilati con gli arti fasciati e il viso
sanguinante, mentre impugna tuttora l'arma fatale scheggiata
e accartocciata. A quelle scariche che per cinque volte si
odono da lungi risponde la città festante con cinque salve
di mortaretti, di pietrere e (fino al 1848) di cannoni ancora.
Verso la penultima scarica un distinto vocio di "arriva, arriva!"
fa accorrere tutta la gente alle rupi per ammirare lo spettacolo
dell'entrata. Il frastuono si fa schiamazzo; tutti i passi
sono rivolti al Baglio.I fuochisti dispongono le loro micce,
gli orefici e gli stovigliai prendono le loro precauzioni;
il clero, le musiche, le congregazioni si avviano all'incontro,
lo scampanio delle chiese permette appena ai più prossimi
di sentire le note asciutte e monotone dei tamburi montanari
che arrivano dalla campagna.
<< Parte
prima Parte terza >>
Novene,
scampanii, suoni e canti per Sant'Ilarione Abate
ovvero
Credenze e preparativi
per il Santo Patrono
di
Gustavo Cannizzaro
www.caulonia2000.it
- Febbraio 2002
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