Caulonia 2000

 

   
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Cola i Tocca e i martiri di Gerace

di Francesco Ammendolia

 

------- Parte prima - Corriere di Caulonia - dicembre 1987..febbraio 1988

 

 

   

Molti giovani cauloniesi, novelli don Abbondio, si chiederanno: Cola i Tocca, chi era costui?

Diciamo che Nicola Cicca­rello detto Tocca, appartiene ad una vicenda vecchia quanto il cucco che noi vo­gliamo rinvagare perché interessa da vici­no la storia di Castelvetere, nel periodo ri­sorgimentale. Spesso ci capita, infatti, di sentir parlare dei cinque martiri di Gerace che erano legati al nostro ambiente, ma molti, probabilmente non ne sanno di più.

   

Siamo nel 1847 quando Caulonia è ancora Castelvetere, e tre dei cinque martiri di Gerace, assieme ad altri due rivolto­si, guidati da Nicola Ciccarello, trovano rifugio nella grotta detta del Ioco, sotto Strano.

«Lo scellerato li nascose ma poi li de­nunciò e li fece arrestare».

Con questa frase interpreta il fatto l'esi­mio arciprete Davide Prota nella sua pub­blicazione del 1913 in «Ricerche storiche su Caulonia».

Con tutta la stima che coltiviamo nei ri­guardi dell'arciprete Prota dissentiamo dalla sua aggettivazione verso il Tocca, certamente conseguenza dei sentimenti che animano un recente evento al quale, poi, il tempo potrà dare altra configurazione. Ma ancora ai tempi del Prota, il Cicca­rello appariva uno scellerato.

Noi, pur es­sendo posteri, non azzardiamo una sen­tenzia, ma ci limitiamo a riferire circo­stanze, mentalità, fattori ambientali e mo­mento storico nel quale l'evento si è con­sumato, lasciando al casuale lettore la pos­sibilità di un suo giudizio


L'Europa era in fermento da oltre un secolo

Già da oltre un secolo l'Europa è in fer­mento. I popoli hanno maturato il periodo rinascimentale e chiedono garanzia al­l'ombra della carta costituzionale.

I più animosi si riuniscono in sette segrete.
Da noi la situazione è quanto mai complessa perché le sette carbonare sono disparate non trovando un indirizzo e un fine unico. La massoneria, costituitasi ufficialmente a Napoli nel dicembre del 1820, siamo sot­to il regno di Ferdinando I, opera con dif­ficoltà, non riuscendo a ridurre alla sua obbedienza, le varie sette carbonare anche se, apparentemente, la situazione è calma rispetto a quella di dieci anni prima.

E opportuno evidenziare che già un secolo pri­ma, nel 1750, gli statuti napoletani defini­vano la massoneria «un composto di citta­dini tra i più benemeriti della religione e dello Stato, uniti in benefizio dell'umanità col più stretto legame di virtuosa amicizia in una sola e ben regolata famiglia».

Si può, quindi, dare ragione a quegli storici che danno la massoneria presente da noi fin dal 1743, esattamente dieci anni dopo la fondazione della prima loggia massonica italiana costituitasi a Firenze nel 1733.

Dicevamo che, al tempo in esame, la confusione tra le file carbonare era grande e lo stesso Mazzini, entrato a far parte della massoneria, nel 1829 con l'intento di infonderle uno spirito più moderno, due anni dopo fonda la «Giovane Italia» e scompagina ulteriormente le file carbona­re.


Nel napoletano sono scomparsi i mu­rattiani che, catechizzati dai filadelfi, avevano creato una considerevole corrente filofrancese mentre, innestandosi su preesi­stenti logge massoniche del rito scozzese, la carboneria recluta i suoi adepti soprat­tutto nelle file dell'esercito e tra la borghe­sia, facendosi espressione delle aspirazio­ni patriottiche e costituzionali. Ma le varie correnti carbonare che si presentano più come un partito di azione che di pensiero, mancano. come si è detto, di un program­ma efficiente ed unico che le armonizzi e quindi bussano al tempio massonico alla ricerca di un governo centrale.

Ne consegue l'istituzione di numerose logge nei principali centri del regno bor­bonico tra le quali, non ultima, è la loggia di Castelvetere la cui influenza si estende da Bianco a S. Caterina. Le persone non più in grado, fisicamen­te, di azioni di disturbo, partecipano alle riunioni massoniche mentre i giovani, più attivi, restano carbonari e soltanto alcuni di essi, con almeno il terzo grado, quello di maestro, hanno acceso alla loggia.


Dopo la fucilazione di  Gioacchino Murat

Scomparsa, come abbiamo detto, la corrente filofrancese, dopo la fucilazione di Murat al quale, evidentemente, lo sve­vo Corradino non aveva insegnato nulla, operano, da noi, la corrente repubblicana conseguente alla infiltrazioni mazziniane; quella che programma un'unità nazionale sotto il governo di Ferdinando lI al quale, già all'età di dieci anni, 1820 e poi re dall'8-11-1830, si era pensato di conferire prima la corona di Lombardia e poi quella di re d'Italia, alla quale egli, ufficialmen­te, rinunziò; la corrente che vedeva in Pio IX il toccasana dei problemi nazionali ed era quella predominante nelle diramazioni all'obbedienza della Loggia di Castelvete­re.

Infine non va tralasciato il fatto che nel 1847 il Piemonte dà asilo ai patrioti del Lombardo-Veneto. Carlo Alberto non na­sconde le sue aspirazioni e, probabilmen­te, se non avesse tentennato troppo, sareb­be assurto a posizioni ben diverse da quel­le che lo hanno mandato ad Oporto.

Tanto più che in suo aiuto accorre Fer­dinando lI con due divisioni agli ordini del gen. Guglielmo Pepe e accorrono anche i pontifici agli ordini del gen. Durando.

Questo spiega la presenza, nel regno delle Due Sicilie di una corrente carbonara filo­piemontese.


E’ facile immaginare l'agitazione con la quale si svolgono le sedute presso la log­gia d'oriente di Castelvetere, tanto più che la carboneria si è andata incrementan­do con l'apporto di masse operaie e conta­dine assoggettando il sentimento religioso con la promulgazione del culto a S. Teo­baldo (simbolo della lotta dell'uomo con­tro i tiranni) e la devozione al suo protetto­re S. Giovanni Evangelista.

Scrive ancora il Prota: oltre al guaio del brigantaggio, c'è quello dei carbonari. Questi settari chiamano vendite le loro adunanze, pecore se stessi, lupi i francesi ed il popolo agnello; le vendite si faceva­no alla prenseza di un cadavere sanguino­so che si chiamava il figliuolo unigenito di Dio ucciso dai lupi. Costoro, oltre alla di­struzione dei francesi aspiravano ad una Repubblica.

In questa setta vi appartennero vari dei più cospicui cittadini di Caseltevere, perché era vezzo di quei tempi, che vari dei più cospicui cittadini di Castelvetere tutte le persone colte fossero carbonari».

Evidentemente il Prota fa confusione tra massoneria e carboneria ed a quest'ul­tima gli unici repubblicani che vi apparte­nessero, erano quelli provenienti dalle file della Giovane Italia. Per quanto concerne le vendite alla presenza di un cadavere sanguinoso, giustifichiamo il Prota ricor­dando che egli, arciprete, apparteneva a quella Chiesa che non accetta altre dottri­ne oltre le proprie.

Maestro Venerabile della nostra loggia è Angelo Raffaele Campisi (che poi sarà deputato al primo parlamento italiano con capitale a Firenze: 1865-1870). Non esiste un tempio così come voluto dallo statuto massonico e le adunanze hanno luogo nel palazzo oggi del dott. Angelo Riccio.

lI palazzo comprende numerosissimi locali con più uscite tra le quali, alle spal­le, quella che immette in un vicolo secon­dario che dà accesso alla scuderia. È, in­somma, un facile asilo per chi abbia moti­vo di nascondersi. A questa possibilità si deve aggiungere l'omertà conseguente al sentimento di riverenza e devozione che porta i cauloniesi alla deferenza leale ver­so quelli in possesso di una superiorità morale o sociale.

Nicola Ciccarello, da Strano, appartie­ne ad una famiglia contadina. Il padre, Giuseppe, è un «letterato» perché ha fre­quentato la seconda classe ed i figli, orgo­gliosi di tanto padre, non vogliono essere di meno.

Nicola, il maggiore, è un uomo di fidu­cia della famiglia Campisi la quale non ha segreti per lui. È il Ciccarello che, in occa­sione delle sedute massoniche, introduce gli ospiti in casa facendone gli onori ed of­frendo il rosolio o il vino, ma ne ascolta anche i preliminari.


Il Primo settembre Messina si solleva

Entriamo nel vivo dei fatti: il primo set­tembre 1847 la città di Messina si solleva e in poche ore è sotto il controllo dei car­bonari. Le guarnigioni borboniche si chiu­dono nei loro quartieri pronti a difendersi da eventuali attacchi che, però, i rivoltosi non effettuano. lI due settembre Domeni­co Romeo da S. Stefano e Rocco Verduci da Sant'Agata di Bianco, chiamano a rac­colta i carbonari della zona ai quali si uni­scono quelli di Salvadori da Bianco e di Gaetano Ruffo da Bovalino.

La fascia jo­nica è in fermento ma Castelvetere non si muove. I carbonari locali guardano il pa­lazzo Campisi in attesa di disposizioni e la sera del tre settembre, mentre la piazza (piazza Seggio) e piazzetta Mortella pullu­lano di giovani in attesa, nel palazzo la di­scussione è alta.


 

Roccella si muove con pochi elementi capeggiati da Pietro Mazzoni, da Stefano Gemelli e da Giovanni Rossetti i quali mandano ambascerie a Castevetere da dove attendono disposizioni e, soprattut­to, la forza numerica di uomini armati. Ma nel palazzo, i massoni in seduta, non con­cordano in alcuna decisione, e soltanto verso le due del mattino del 4 settembre arriva l'invito alla calma in attesa di eventi.
Le guardie civiche non vedono e non sentono nulla mentre gli animosi, animatamente, battono il selciato con le scarpe chiodate e gli inviati roccellesi trovano ospitalità presso parenti e amici. Nella seduta not­turna, in seno alla loggia, prevale la linea di fare «rumore» al fine di ottenere dal re, la costituzione, senza spargimento di san­gue, ma la stanchezza fisica e la prudenza consigliano un rinvio. E la decisione è quanto mai saggia perché verso mezzogiorno dello stesso giorno quattro, arriva la notizia che il capitano Alessandro Nun­ziante è già partito da Napoli con un gros­so contingente, allo scopo di domare la ri­volta e sta per sbarcare a Pizzo.

   


Nelle file massoniche Nunziante è ben conosciuto perché ne fa parte e poi è messinese, la cit­tà da dove è partita la rivolta. Sì spera, ad­dirittura, che Nunziante abbia accettato l'incarico non per combattere i carbonari ma per unirsi a loro.

La realtà tradisce tale aspettativa perché egli consegna alla giustizia i responsabili della rivolta salvo a battersi, non sempre positivamente, per salvar loro la vita.


lI sette settembre ogni segnale di rivolta è spento ma il clima resta rovente perché, dal nord, arriva la notizia che Carlo Alber­to sta mobilitando l'esercito. E’, quindi, prudente nascondere i capi dei rivoltosi ed attendere gli eventi. I fratelli Raffaele e Nicola Campisi si assumono tale impegno e rimandano alle loro case i roccellesi con l'incarico di avvertire i capi dei rivoltosi di ritrovarsi in una località da dove essi, i Campisi, avrebbero provveduto a farli condurre al palazzo.

Esiste, sulla strada verso il Bosco Cata­lano di Roccella, poco dopo il bivio per il Salice, sulla destra, una cappella dedicata a S. Sostene con attorno i ruderi di quello che è stato un piccolo convento di frati.

lI mattino dell'otto settembre, già prima dell'alba, Salvadori, Verduci, Bello e Ge­melli sono nascosti tra questi ruderi e qui arriva Nicola Ciccarello, mandato dai Campisi.

lI tempo si va gustando e Cicca­rello consiglia un avvicinamento che li porta a riparare nella grotta del loco, sotto Strano, località a lui ben nota. Nella pe­nombra crepuscolare i cinque consumano le cibarie dei quali il Ciccarello era stato prudentemente fornito dai Campisi, e scelgono un angolo dove riposare. Più che il lauto pasto, il buon vino ha sollevato il morale di tutti, e al dialogo dei quattro si unisce la voce del Ciccarello. Costui, uomo furbo e guardingo, pronto a cogliere un'occasione utile da ogni circostanza senza mai esposrsi a rimetterci qualcosa, non condivide la presa di posizione dei quattro giovanissimi ai quali la vita sem­bra aver dato più del necessario.

Fare la rivoluzione e perché?... contro il nostro re che è un galantuomo.

Le tre effe: festa, farina e forca

D'accordo per l'unità degli italiani, ma sotto la repubblica non sotto il Savoia o Pio IX. Figuriamoci, quello ci manderà i carabinieri e gli agenti delle tasse e Pio IX, poi, il dominio dei preti, figuriamoci.

Certo, se non ci fossero stati a romper­ci... i fratelli Bandiera e i moti di tre anni fa, il re la costituzione ce l'avrebbe già concessa.

Le tre effe: festa, farina e forca? Godiamoci la festa e la farina ed alla forca ci vada chi la va cercando.


La festa di Crochi

L'alba dell'indomani, nove settembre, annunzia la quiete dopo la tempesta ed è domenica. Il cielo è azzurro e alla Contrada Crochi si svolge la tradizionale festa della Madonna. Moltissimi sono i partecipanti specie dai molti villaggi perché, religiosità a parte, la festa del greto del torrente Amusa, è occasione d'incontro annuale di parenti ed amici residenti anche a distanza notevoli. E’occasione d'incontro dei  numerosi preti del Centro,  di Campoli di Ursini e di S. Nicola, per concordare il costo una messa o di un funerale: l’ unione fa la forza, è detto.  La festa è anche occasione combinazioni matrimoniali.

Rosa di S. Nicola dice al marito: “Bruno,  ti ricordi quando è nata Mariannina nostra, quando son venuti a trovarci i compari Nuciforo di Candidati, quando hanno  bevuto il nostro vino della vigna di Calatria? Quando compare Ilario ha esclamato che per una vigna capace di produrre quel vino darebbe l'anima al diavolo? Ti ricordi che hanno portato  il loro bambino Ciccillo che aveva sei anni?”

 

Mastro Bruno, il marito, alle prese con una «cannata» di vino che si esaurisce troppo in fretta, annuisce. Una lunga esperienza gli ha insegnato la saggia consuetudine di non dialogare mai con la moglie ma di limitarsi semplicemente a dire di si con un cenno del capo. «Il piccolo Ciccillo - riprende Rosa -  dovrebbe avere adesso venti anni e non è sposato se no i compari ce l'avrebbero comunicato. Mariannina nostra ha già sedici anni e comincia a preoccuparmi. Il corredo è pronto e la vigna di Calatria hai detto sempre di volerla dare a lei.
A Concettina daremo poi gli ulivi del pezzolo ma adesso dobbiamo pensare a Mariannina che ha già sedici anni, capisci?
Perché non andiamo alla festa di Crochi dove incontreremo i compari di Candidati?» E i compari Nuciforo di Candidati più o meno alla stessa ora dello stesso giorno concludono la cena: «Andiamo alla festa Crochi, perché è ora che Ciccillo si sistemi e li troveremo certamente una ragazza che faccia per lui, magari una nostra parente o una nostra comare».

   
Alla vigilia della festa di Crochi, dialoghi impostati su tale serio argomento si svolgo­no a Campoli come a Focà, a Pezzolo ed a Popelli, ad Obile ed a Finocchio: ovunque c'è un giovane per cui trovare una moglie ma soprattutto dove c'è una ragazza anziana di sedici anni alla quale trovare un marito.
  Fin dal primo pomeriggio del sabato oltre i «feràri» con la cassetta di caglia, mustac­cioli, caciocavallo e bescia­melle vi sono i macellai pro­fessionisti e quelli improvvisati. La vittima predestinata è la capra ed il pasto tipico tradi­zionale per la sera del sabato è il «cotto», un insieme di inte­riora, budella comprese, lava­te frettolosamente nelle acque del torrente e fatte cucinare a tocchetti nel pomodoro con ab­bondante peperoncino. Abbof­farsi di «cotto» con soppressate e pecorino è una tradizione che si perde nei tempi. I giova­ni spensierati, colmi di vino, sentono l'odore delle vergini
   

proveniente da sotto le coperte, distese al riparo degli ulivi, ove bivaccano, tendendo lo sguardo avido d'amore verso gli uomini che danzano frene­ticamente sul greto al suono delle  armoniche,  cantando:
duvi t'ha muzzicatu lu tarantulu mbielenatu? Si t'ha muzzi­catu alla panza, panza cu pan­za non c'è crianza...»

Gli anziani continuano a consumare il «cotto» più sapo­rito perché sempre meno pulito e le donne, nella chiesa, bia­scicano,  sonnecchiando,  le loro litanie. La Vergine, dal­l'alto del suo simulacro sorride su tutto e benedice tutti, anche coloro che, ubriachi, la be­stemmiano.


L'arrivo di Ciccarello

Per il Tocca la festa di Cro­chi è una forte tentazione e non vi è mai mancato da quando aveva dieci anni. Lascia gli insorti nella grotta del loco di­cendo di volersi recare a Ca­stelvetere per sentirsi con i fra­telli Campisi ma in realtà dalla grotta scende nell' alveo del torrente e lo risale raggiungen­do Crochi.

Quivi giunto è faci­le immaginare il trascorrere delle sue ore. Gli abbracci e i saluti non finiscono mai come pure i bicchieri di vino fino a quando l'incontro con il suo vecchio amico Domenico Cer­chiara, non si conclude sotto un tendone, di fronte a due piatti di spezzatino di capra.

Domenico Cerchiara è un fa­natico borbonico, furbo fino al midollo, tanto che pur essendo semianalfabeta ed abitando a Campoli, viene nominato sot­tocapo urbano. Egli sa dei sen­timenti anti borbonici dei Cam­pisi che egli ritiene bene infor­mati sugli avvenimenti degli ultimi giorni e, probabilmente, del rifugio dei ricercati, ma sa anche della fiducia della quale gode il Ciccarello presso di loro e sa che lo stesso, pur es­sendo un fedele servitore, non condivide le idee cospiratrici dei padroni.

Tutti i Ciccarello sono notoriamente fedeli alla monarchia e vedremo in segui­to come, tredici anni più tardi pagheranno con la vita questa fedeltà alla causa borbonica che, un'ironia storica, l’ha tacciata di tradimento.

Dunque l'astuto Domenico Cerchiara sa tutto di tutti e sa fare pure la faccia del fesso quando deve carpire la buona fede degli altri.

Le idee patriottiche del Cic­carello e del Cerchiara si iden­tificano e i due sono intelligen­temente furbi con la differenza che distingue il disinteresse e quindi la non malizia del Cic­carello dalla mestierante abili­tà del Cerchiara. Così i due sono lieti di trovarsi insieme seduti di fronte a due piatti di spezzatino di capra vicino ad una botte che mandava un aspro odor di vino a rallegrare l'animo. Un bicchiere tira l'al­tro ed una confidenza tira l'al­tra...


L'arresto

Quando  a  mezzogiorno, dopo i fuochi di artificio, il si­mulacro della Madonna viene riportato in chiesa, indice che la festa è finita, i due amici si accomiatano per seguire due itinerari diversi.

Nicola Cicca­rello, accompagnandosi ed al­tre comitive, sale verso il Sor­gente per raggiungere Castel­vetere e recarsi al palazzo Campisi.

Il vice capo urbano Cerchiara rintraccia le altre tre guardie civiche dislocate a Crochi per sedare eventuali nsse che sistematicamente tut­ti gli anni si verificano a causa delle  abbondanti  libagioni, percorre all'inverso lo stesso cammino fatto la mattina dal Ciccarello ed alle ore 14 arre­sta i quattro sventurati i quali non oppongono alcuna resi­stenza.

Incatenati entrano in Castei­vetere da Porta Amusa che pullula di gente, salgono lungo il vallone e, raggiunto il conven­to dietro la chiesa del Rosario, vengono rinchiusi in carcere.

lI convento, già dei frati dome­nicani, era malridotto quando il terremoto della sera del 5 febbraio 1783, che si è manife­stato fino al 30 giugno, ha fatto crollare le mura che cingevano il nostro paese, riducendo l'e­dificio, che sorgeva a piombo su parte di esse, a soli pochi vani utili del piano terreno. Durante la seconda occupazio­ne francese del 1806 il conven­to era rifugio di ribelli che mal sopportavano gli invasori per cui, nel 1811, Gioacchino Murat decretò la sua chiusura e fece trasformare le restanti cel­le dei domenicani, in celle car­cerarie

 

Quando i quattro sventurati attraversano le vie del Paese un grido si leva dalla bocca di tut­ti: hanno arrestato i carbonari!
La piazzetta antistante il pa­lazzo Campi è affollatissima: la gente guarda in alto verso i balconi commentando l'acca­duto.

Nell'interno del palazzo Nicola Ciccarello è di fronte a don Raffaele al quale aveva fi­nito di assicurare che, entro la mezzanotte, i quattro amici sa­rebbero al sicuro nella scude­ria. «Lasciate la porta aperta -stava concludendo - e poi vi avvertirò io dalla porta di die­tro».

   


Al grido proveniente dal­le strade, il Ciccarello, dalla mente del quale i fumi del vino erano svaniti, ha il quadro esatto della sua involontaria responsabilità nell'accaduto e di come il Cerchiara sia riusci­to ad intrappolarlo. Ha uno scatto d'ira ma abbassa lo sguardo e mormora: vado ad informarmi.

Raggiunta a sten­to la Piazza, trattenuto dalla gente che vuole sapere e avuta certezza dell'arresto dei quat­tro, imbocca la discesa di porta Amusa dove sa che a sinistra c'è la peggiore gargotta paesa­na e conclude la serata con una storica sbornia. In Paese c'è fermento. In più si grida che i prigionieri, in nottata, saranno liberati,  ma ormai la posizione dei massoni e dei carbonari locali è precaria.


A Gerace Mari­na (Locri) è già arrivato verso mezzogiorno il capitano Ales­sandro Nunziante che fa il suo dovere di ufficiale borbonico, lontano mille miglia dalle aspettative e speranze dei car­bonari della nostra zona.

Il sottocapo urbano Cerchia­ra, nel suo rapporto, un pò per averne tutto il merito e un pò per gratitudine verso il Cicca­rello che, sia pure involonta­riamente lo aveva messo sulle tracce dei rivoltosi, non fa menzione di quest'ultimo né dei fratelli Campisi, rivelando una furbizia prudenziale degna di ogni lode.

Cerchiara verrà poi premiato con la croce di ca­valiere all'ordine di Francesco I e 2.000 ducato (circa dieci milioni di oggi) saranno divisi tra tutti coloro che hanno par­tecipato all'arresto dei cospira­tori.

Dopo l'unità d'Italia lo stesso Cerchiara, in forti ri­strettezze economiche venderà la croce di cavaliere ad un bab­beo di Campoli per 60 piastre pari a circa un milione e due­centomila lire di oggi.

 

 

 


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