Le recenti elezioni amministrative: analisi di una sconfitta per il centro - sinistra e i Ds
di Franco Ambrogio

All'ammissione della sconfitta non è seguita, finora, nei DS e nel centro-sinistra una seria ricerca delle ragioni di questo progressivo, grave arretramento. Anzi, gli equilibri di vertice nei DS hanno finora imposto il rifiuto di un approccio critico alla politica di questi anni.


Con le recenti elezioni amministrative si è chiusa una fase, lunga quasi un decennio, che ha visto il centro-sinistra- e i DS, in primo luogo- governare gran parte delle città e delle province calabresi.
I comuni capoluoghi di provincia, tranne Cosenza, sono, oggi, amministrati dal centro-destra, insieme a quasi tutti i comuni più popolosi della regione.
L'esaurimento di quella fase è cominciato con le elezioni regionali del 2000, è divenuto evidente con le politiche dell'anno successivo e si è completato con le elezioni amministrative del maggio scorso. Particolarmente gravi sono stati in tutte queste consultazioni i risultati della provincia e della città di Reggio C. .
All'ammissione della sconfitta non è seguita, finora, nei DS e nel centro-sinistra una seria ricerca delle ragioni di questo progressivo, grave arretramento. Anzi, gli equilibri di vertice nei DS hanno finora imposto il rifiuto di un approccio critico alla politica di questi anni
Ricercare le ragioni della sconfitta è il primo, ineludibile compito per i DS e il centro sinistra.
I motivi sono diversi. C'è , però, un dato politico essenziale che va messo al centro della discussione e delle scelte strategiche che i DS devono compiere per cercare di risalire la china: lo sgretolamento di una politica spregiudicata che ha mirato, in maniera esclusiva alla presenza nelle giunte locali e regionali, prescindendo, spesso, alla fin dei conti, dagli obbiettivi e dalla qualità del governo, dalla natura delle alleanze, in molti casi intercambiabili e segnate da evidenti fenomeni trasformistici. E' stata la politica pigliatutto che ha, in un certo momento, con supponenza infantile e velleitaria, preteso di far giocare ai DS un ruolo simile a quello avuto dalla DC: per la posizione di maggior partito della coalizione, per la volontà d raccogliere pezzi di personale politico e di apparati che della DC si sentivano orfani, per il disincanto maturato sulla possibilità di un cambiamento, giungendo alla conclusione che nel Mezzogiorno non fosse possibile fare diversamente dal tradizionale modo di governare.
Problemi non semplici, certamente, si pongono nella politica delle alleanze, ma la sostanziale rinuncia ad un progetto di trasformazione in grado di traghettare la società calabrese verso una condizione di minore subalternità e dipendenza, è stato il modo attraverso cui ,inevitabilmente, si è consentito che si tornasse indietro negli orientamenti di quella parte di società che aveva guardato alla sinistra.
Infatti, l'ipotesi della centralità DS non ha preso neppure quota, ma il prezzo pagato è stato alto in termini di crescita di fenomeni trasformistici, di depauperamento delle nostre forze, di cesura con le nuove generazioni, di assenteismo elettorale.
Il deficit di politica meridionalista del centro-sinistra , proprio nella fase della globalizzazione e della virulenta campagna della Lega contro il Mezzogiorno, ha reso ancora più pesanti questi processi.
Gli anni '90 hanno visto un'accentuazione delle caratteristiche negative della Calabria e l'indebolimento del suo ruolo nel contesto meridionale e nazionale.Ciò è avvenuto nell'assenza di un'apprezzabile azione di contrasto e di una forte iniziativa politico-culturale tendente a indicare la possibilità di un percorso diverso.
Rispetto alla "modernità distorta" non sono avanzate una visione e una proposta diverse.
In questo modo l'orizzonte si è ristretto, la politica è divenuta più misera, il linguaggio delle varie forze è divenuto simile, il confronto è divenuto una gara per la semplice gestione di ciò che c'è.
Proprio mentre le differenze dovevano essere visibili e forti per dare alternative credibili ad una società in crisi ed alla ricerca di risposte ,si è creata più confusione, sono cresciuti i particolarismi, i localismi , il livello della conflittualità politica si è ridotto ed è dilagata la trasversalità.
Si è scelta la fallimentare strada di praticare il vecchio modello di relazioni tra politica e società, riproponendo quel surplus di intermediazione nell'uso delle risorse nella speranza -del tutto vana- di intercettare il voto reso libero dalla destrutturazione dei vecchi partiti di governo.
Di più, questa scelta ha determinato il riciclaggio e la nascita di una nuova leva di mediatori del consenso che si sono posti, in modo trasversale, come punti di snodo tra i diversi schieramenti oltre che come collettori di voti.
I ribaltoni sono stati l'espressione di tutto ciò.
La sinistra è stata divisa tra Rifondazione comunista, attestata su posizioni estremamente minoritarie e chi, tra questi soprattutto i DS, ha fatto del governo a tutti i costi l'unica frontiera dell'azione politica, perdendo così l'occasione di allargare consenso e rappresentanza, utilizzando il nuovo quadro delle relazioni sociali, derivante dalla concertazione, per affermare coerenti politiche riformiste.
Così si è persa una straordinaria possibilità di costruire un nuovo rapporto tra politica ed economia, tra istituzioni e società.
La sinistra, il centrosinistra dovevano essere in grado di esprimere il massimo di capacità riformista e di collegamento con il nuovo. Di nuovo, invece, c'è stato solo l'assimilazione di un vecchissimo modo di fare politica.
I risultati di questa fase in termini di sviluppo, di crescita democratica, di maturazione di una soggettività sociale autonoma sono stati, inevitabilmente, deludenti.
Il centro-destra ha potuto, così, intercettare, da una parte, la delusione e, dall'altra, il bisogno di trovare un ancoraggio, una sicurezza. Ha potuto presentarsi come espressione più diretta di forze della società, oltre i limiti dei partiti e, nello stesso tempo, dare sicurezza agli apparati e a buona parte dei centri tradizionali di potere, costringendo il centrosinistra nel recinto della vecchia politica.
In effetti, nel governo delle istituzioni locali e regionale, un certo spostamento dei centri decisionali c'è stato: dai gruppi dei partiti il potere di scelta è passato, in buona misura, a gruppi, organizzazioni, lobbyes che operano direttamente nella società.
L'esperienza più positiva, in questa fase, è stata la stagione dei sindaci, caratterizzata complessivamente dalla buona amministrazione, dalla stabilità, da visibili risultati che hanno migliorato la vita delle città. Il consenso dei cittadini ha premiato chi ha saputo esprimere meglio il senso civico della comunità e ha dato questa impronta alla sua rappresentanza e alla sua opera.
Anche questa esperienza è stata segnata dalla personalizzazione della politica e dalla crisi dei partiti. I due aspetti sono stati speculari l'uno con l'altro, per cui al governo cittadino né si è accompagnata e né è stata stimolata un'azione politica volta a creare o a consolidare orientamenti politici e culturali di discontinuità rispetto al modo tradizionale di fare politica, a fare crescere un più elevato spirito pubblico, ad articolare una soggettività sociale autonoma.
Alla personalizzazione della politica ha dato certamente una spinta decisiva il sistema maggioritario, ma non era inevitabile la riduzione dei partiti, anche in buona misura il partito dei DS, ad un sistema di relazioni personali, con scarsa capacità di rappresentanza sociale, di progettualità politica e di proiezione di valori, fino a giungere ai partiti-taxi da usare in base ad opportunità e convenienze personali. Ciò è stato il prodotto di determinate scelte politiche e degli orientamenti dei gruppi dirigenti.
La vicenda della Regione racchiude ed esalta, per molti aspetti, tutte le tendenze a cui fin'ora si è fatto cenno.
Nel 95 e nel 2OOO si sono avute le sconfitte del centrosinistra a seguito di operazioni politiche tipo "ribaltone", che hanno reso incerta la distinzione fra i due schieramenti e hanno, anzi, regalato al centrodestra la possibilità di presentarsi come novità .
Ancora, oggi, si stenta a cogliere significative differenze negli obbiettivi programmatici delle due coalizioni. Il modo di fare politica e di rapportarsi ai cittadini non è di netta distinzione; comune, nella sostanza, è stata nelle esperienze di governo dei due schieramenti la rinuncia ad una azione per modificare la struttura della Regione, dominata dalla inefficienza, non sottoposta ad alcun controllo, permeabile alla corruzione, smisurata nella sua dimensione. Anzi, negli ultimi anni alcune di queste caratteristiche si sono accentuate e il processo in questa direzione continua, spesso con l'avallo del centrosinistra.
Il fallimento del governo di centrodestra alla Regione di questi anni è clamoroso. Così come deludente è stata fin'ora l'azione del governo Berlusconi. Si stanno evidenziando nettamente le ipoteche antimeridionali sulla politica governativa, gli enormi ritardi nella definizione di una strategia della Regione per affrontare i problemi derivanti dal processo federalista, dall'acquisizione da parte delle regioni di nuovi poteri e nuove responsabilità, tant'è che per la sanità si è risposto semplicisticamente con l'imposizione di nuove tasse e ticket che colpiscono in maniera indiscriminata e pesano in maniera odiosa sui ceti più deboli.
La linea che sta emergendo è quella di affidarsi ad una politica di lavori pubblici, ancora in buona parte annunciata e senza certa copertura finanziaria, svincolata da una politica di sviluppo, da un forte sostegno alla dinamizzazione produttiva della economia e della società.
Si pone con urgenza il problema della rappresentanza degli interessi regionali, in una fase di oggettiva competizione con le altre regioni, e di una azione del governo regionale che abbia caratteristiche di unitarietà per l'intero territorio calabrese.
Il problema della rappresentanza degli interessi regionali, non poteva essere risolta dai sindaci, anche con il segno positivo che ha avuto la loro azione, e non si è risolto nemmeno compiutamente con l'elezione diretta del Presidente della Regione.
La rappresentanza istituzionale calabrese è debole, anche nel contesto meridionale, perché priva di un progetto autonomo e di un rapporto democratico con i cittadini ed è minata nella sua credibilità dal predominio di visioni e pratiche particolaristiche e localistiche. C'è il pericolo, non correggendo in tempo queste tendenze, di una frattura della tenuta unitaria della regione.
In ciò sta la ragione principale del fallimento di Chiaravalloti.
Nei due anni di governo del centrodestra l'elemento dominante è stato il permanente braccio di ferro, da cui sono scaturite ben tre giunte, tra il Presidente Chiaravalloti e i vecchi o nuovi gruppi di potere dei partiti. La posta in gioco è, naturalmente, il controllo della stessa.
La debolezza politica di Chiaravalloti e la volontà di appropriazione delle istituzione da parte dei gruppi di vari partiti, hanno prodotto una modesta azione di governo, la paralisi in settori importanti della spesa, non hanno permesso di affrontare con tempestività e serietà i problemi derivanti dalla modifica della parte V^ della Costituzione, hanno dato vita alla vicenda sconcertante dell'elaborazione del nuovo statuto regionale.
Da questa evidente difficoltà del centrodestra non è scaturito un maggiore consenso per il centrosinistra e i DS.
Il centrosinistra in questi due anni, non ha avuto, nella collocazione di opposizione un pur minimo collegamento unitario, si è disarticolato, non è stato immune dal trasversalismo deteriore, non ha contrapposto una propria visione sulle questioni che si sono poste.
Di particolare gravità è stata la condotta fin qui seguita nell'elaborazione del nuovo statuto della Regione. L'unica, avvertita, visibile preoccupazione è stata quella dell'abolizione dell'elezione diretta del Presidente della Regione, dando vita , a questo fine, ad un indiscriminato schieramento di consiglieri regionali.
Il risultato finora conseguito è stato quello di trascurare una necessaria, compiuta e radicale riforma dell'Istituto regionale alla luce del fallimento di trent'anni di regionalismo e delle modifiche costituzionali.
Ci si è immersi, al contrario, in una ricerca confusa e per qualche aspetto risibile di soluzioni che permettessero di mettere da parte l'elezione diretta del Presidente della Regione, dando l'impressione di volere perpetuare un modo tradizionale di governo della Regione basato sulla spartizione della spesa tra i gruppi localistici di potere, quando, al contrario, c'è urgenza di assicurare efficienza e trasparente responsabilità, visione unitaria e rottura di pratiche basate su interessi clientelari dando, un forte impulso, per questa via ad un necessario rinnovamento della politica.
Il fallimento dell'azione di governo del Presidente Chiaravalloti è da iscrivere non ad un eccesso di potere attribuitogli dall'elezione diretta, ma alla sua debolezza politica ed al suo collocarsi nella sostanza nel solco della politica tradizionale seguita nel governo della regione.
L'elezione diretta del Presidente della Regione deve essere un punto fermo del nuovo statuto, all'interno di un progetto di riforma che veda il trasferimento rapido e pieno della gestione a Comuni e Province, contro la tendenza e la pratica di un nuovo centralismo regionale, facendo finalmente svolgere alla Regione i suoi compiti primari di legislazione e di programmazione, fin qui completamente trascurati, e dando, quindi, al Consiglio regionale centralità e potere di controllo, anche attraverso nuovi ed appositi istituti.
Il trasferimento di maggiori o esclusivi poteri alla Regione in molti e vitali settori dell'organizzazione sociale dei servizi e dell'economie, pone nuovi e non semplici problemi al governo della regione.
Il tradizionale ancoraggio ad una politica della spesa, senza controllo e senza limiti, a carico dello Stato, sta per molti aspetti venendo meno, senza che la Regione abbia impostato progetti e compiuto scelte per governare al meglio la nuova situazione.
Come si è cominciato a vedere per la sanità, c'è il concreto pericolo di una grave difficoltà a fronteggiare i problemi che si pongono e può verificarsi un vero e proprio stato di crisi in alcuni settori.
Da questa analisi deriva la necessità per la sinistra di una svolta politica che operi una reale rottura con le vecchie pratiche e sia in grado di affermare un nuovo agire politico ponendo al centro di esso il lavoro, innanzitutto quello da creare, il suo valore sociale, la sua funzione di affermazione delle persone.
Solo così per la sinistra sarà possibile ridare un senso alla militanza e all'impegno politico, ricostruire il proprio insediamento, recuperare il ruolo e la funzione dei Partiti e, per questa via rendere possibile l'incontro con quei soggetti espressione dell'arcipelago di movimenti che sono attivi nella società civile e nel volontariato.
Questa può essere la strada lungo la quale riprendere un rapporto proficuo con le nuove generazioni che, al di là di tante mistificazioni, sono disponibili all'impegno politico solo se esso è portatore di valori, così come testimoniano i diversi movimenti che in Calabria, seppure non in maniera adeguata, hanno dato vita a diverse iniziative sul terreno della lotta alla globalizzazione liberista,per la pace, per un informazione libera, per la difesa della scuola pubblica ecc.
Con questi movimenti i DS, e più complessivamente tutte le forze della sinistra e del centro- sinistra, devono riannodare un confronto stabile ed una proficua relazione, non per affermare improponibili egemonismi o peggio ancora per fagocitarli, ma nella consapevolezza che lo schieramento progressista non può divenire maggioritario se non è disponibile ad una reale contaminazione culturale, e ad un confronto politico non strumentale, per la definizione di un programma fondamentale di tutte le forze di progresso della regione.
Solo con una impostazione di questo tipo è possibile definire una reale alternativa allo schieramento di centrodestra, oggi largamente maggioritario in Calabria, costruire un blocco politico e sociale di opposizione che cominci a lavorare ad una credibile alternativa di governo.
Per fare questo è necessario siano espliciti e chiari i punti di differenza con l'attuale governo di centro-destra e le discontinuità con le nostre vecchie impostazioni.
Su questa base sarà possibile aprire una forte mobilitazione popolare. Decisivo a questo fine sarà il modo in cui la sinistra calabrese starà nella battaglia sociale e politica di quest'autunno. Da esso, infatti, dipende la possibilità di riaprire il dialogo con una parte del suo elettorato che nelle ultime tornate elettorali ha ripiegato nell'astensionismo e trovare nuovi consensi.
La svolta che noi proponiamo deve essere sostenuta da un conflitto in grado di fare lievitare una idea alta della politica e che abbia due fondamentali punti di ancoraggio: un robusto riformismo programmatico; una forte e coerente radicalità nel perseguire gli obiettivi.
Ancora una volta, cioè, alla sinistra calabrese si ripresenta la questione di declinare, nel nuovo scenario nazionale ed europeo, una idea dello sviluppo che abbia al suo centro la persona, i suoi diritti, il bisogno di autoaffermazione, la rottura con vecchie e nuove dipendenze.
Solo così sarà possibile sconfiggere quella cultura individualista, su cui la destra ha fatto leva, ed affermarne una che coniughi i bisogni individuali all'azione collettiva, la ricerca di una condizione di soddisfazione del singolo al benessere collettivo.
La sinistra deve introiettare la sostanziale convinzione del superamento dell'idea che in Calabria tutto è immodificabile, che non si possono ridislocare forze, soggetti, gruppi che oggi hanno scelto il disimpegno o, in mancanza di una alternativa, la stessa destra.
Al contrario è realistico recuperare queste forze se saranno chiari gli interessi e i valori che si intendono fare vivere e rappresentare, e se le si chiamerà ad un protagonismo attivo.Ciò sarà possibile se i DS, e la sinistra nel suo complesso, saranno capaci di rompere con il passato, se ridanno centralità a chiare opzioni programmatiche, se sapranno definire i punti di fondo su cui fare ruotare l'insieme delle scelte che di volta in volta devono essere compiute.
La costruzione di un nuovo centrosinistra è questione particolarmente urgente ed impegnativa in Calabria. Nuovo deve significare davvero significative novità rispetto al passato in termini di contenuti, di modo di fare politica, di partecipazione democratica, di regole certe.
Sono necessari fatti politici chiari per dare il segno tangibile di cambiamento rispetto alle esperienze passate, in modo da restituire credibilità e creare fiducia. Non è con qualche formula organizzativa che ciò si realizza.
Da parte di tutti i partiti del centrosinistra si proclama la volontà di tornare a vincere a cominciare dalle prossime elezioni provinciali e regionali. Ma per raggiungere questo obbiettivo è indispensabile costruire il nuovo centrosinistra nel fuoco di una lotta politica e sociale da sviluppare ora.
Il compito prioritario del centrosinistra in Calabria è quello dell'organizzazione e del dispiegamento di una forte, credibile e qualificata opposizione alla Giunta regionale. Un'opposizione che sia svincolata anche da particolarismi e da trasversalismi. Una politica che dall'opposizione si misuri con le questioni sul tappeto, da quelle dai risvolti sociali più urgenti a quelle del lavoro e dello sviluppo, dell'utilizzazione dei fondi comunitari,del decentramento dei poteri.
Un'opposizione che si colleghi e faccia crescere i movimenti di lotta sociale e civile.
Da parte delle forze del centrosinistra c'è stato un atteggiamento di chiaro distacco dai movimenti, a volte apertamente proclamato se non polemico. Anche lo stesso sostegno allo sciopero generale di Aprile è stato privo di iniziative politiche adeguate.
Proprio chi spesso evidenzia una supposta parzialità dei movimenti e si considera depositario della capacità di avanzare proposte e di sintesi, non esercita, poi, realmente questo ruolo, limitandosi a proclamarlo nel chiuso dei partiti.
I movimenti esprimono non una semplicistica protesta, ma sensibilità, culture, indirizzi precisi riguardo a concreti problemi che la politica e la società devono affrontare; utilizzano nuove forme e diversi strumenti nel concreto dell'agire politico; richiedono un rinnovamento della politica che comporti la messa in discussione dei tradizionali metodi di raccolta del consenso e che veda i partiti uscire dal guscio in cui si sono rinchiusi.
Qui è il vero banco di prova per la costruzione del nuovo centrosinistra, che potrà consentire di affrontare con migliori possibilità le scadenze dei prossimi anni.
La linea di costruzione del nuovo centrosinistra deve avere un suo pilastro nell'elaborazione di un programma che racchiuda scelte discriminanti e qualificate, indichi credibilmente un percorso di sviluppo, di democrazia, di affermazione dei diritti e della legalità e su cui costruire l'unità dello schieramento e il consenso dei cittadini, in particolare di quelli che si sono allontanati non solo dalla politica e dai partiti ma anche dalla partecipazione al voto.
Deve essere una linea di costruzione dal basso con le forze sociali, i soggetti organizzati della società civile, nei luoghi di lavoro, nelle scuole, nelle università, sul territorio, in maniera tale da allargare le forze impegnate in un progetto di cambiamento.
I gruppi dirigenti devono, innanzitutto, in questa fase, stimolare la crescita di questa partecipazione larga e plurale e raccoglierne il senso.
L'allargamento del centrosinistra deve avvenire certamente interessando forze come Rifondazione Comunista e Italia dei Valori.
In Calabria, ed in particolare in alcune realtà, c'è la necessità di una specifica attenzione verso le forze di tradizionale estrazione socialista. Non ci convince il modo come fin'ora è stato affrontato il problema e come si intende continuare a fare.
La via di un assemblaggio di pezzi di ceto politico - adesso qualcuno vorrebbe includere spezzoni di estrazione socialista collocati nella maggioranza di centrodestra - si è dimostrata foriera di incongruenze e contraddizioni ed espone la sinistra al pericolo di una rinuncia alla sua caratterizzazione innovatrice, con l'inglobamento dei DS in una lotta concorrenziale per la gestione, non definita dalla linea del cambiamento. Tra l'altro questa linea ha già dato origine alla riproposizione della contrappozione tra gruppi del vecchio Partito Socialista, nella quale, anche i DS, rischiano di rimanere invischiati.
I DS non possono rinunciare a portare nella ricerca unitaria un carico di sensibilità, di interessi, di cultura, di valori che fanno la loro ragion d'essere.
La via è quella di una ricerca unitaria che si basa sui contenuti, sui metodi di governo che non siano quelli tradizionali, che allarghino la democrazia, assicurino la legalità e il rispetto delle regole, non favoriscano fenomeni trasformistici che causano ulteriore disaffezione.
Sarebbe un errore gravissimo se il personale politico che dirige i partiti del centrosinistra, invece, di scegliere questa strada per costruire il nuovo centrosinistra decidesse, come qualcuno di fatto propone, di impostare unicamente un confronto di vertice per la scelta,ora, del candidato Presidente della Regione. Un confronto che non potrà non tradursi in una lunga, devastante fase di litigio per compiere questa scelta. Sarebbe intollerabile impantanare le forze del centrosinistra, a quasi tre anni dalle elezioni, in una disputa di questo genere, tanto più se, come pare, la scelta della candidatura alla presidenza della Regione dovrebbe far parte di un pacchetto preconfezionato, comprendente anche le candidature dei presidenti delle province che voteranno nel 2004.
Il centrosinistra deve, al contrario, darsi regole certe che assicurino la più ampia e democratica partecipazione alla scelta delle candidature. Queste devono essere funzionali ai fatti politici nuovi che l'azione di costruzione del centrosinistra saprà produrre, ai programmi, non sottoposte ad equlibrismi di vertice, aderenti alle diverse realtà e dovranno essere decise nei tempi opportuni per la loro efficacia.
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Questi primi anni del 2000 vedono una Calabria che allarga il suo divario con il resto dell'Europa e dello stesso Mezzogiorno. Infatti, cresce il numero dei poveri, aumenta la disoccupazione e il tasso di occupazione non registra segni particolari di ripresa. Ciò, in controtendenza con il resto del Paese.In definitiva, si allarga la distanza sul terreno economico, sociale e civile. Mentre in altre aree del Mezzogiorno si è avuto un allargamento dell'area produttiva, la Calabria stenta nella sua capacità di sviluppo, rimane ancorata ad una economia di consumo, per cui produciamo quasi la metà,percentualmente,del centro-nord, ma consumiamo solo un quarto in meno.
Senza indulgere in catastrofismi, si può realisticamente affermare che la Calabria continua a rimanere su un difficile crinale: da una parte la prospettiva di una consistente inversione di tendenza resa possibile dalle potenzialità di realtà dinamiche; dall'altra il rafforzarsi della marginalità e la debolezza del suo fragile apparato produttivo.
La sfida che, dunque, continua a rimanere aperta è quella della rottura con il sottosviluppo e con la dipendenza assistita che continuano a caratterizzare i tratti salienti della condizione economica e sociale regionale.
E' una sfida resa ancora più difficile dalla assoluta inconsistenza del Governo regionale e dalla perdurante crisi del sistema politico e della sinistra che fa fatica a misurarsi, in modo innovativo, con i caratteri della crisi calabrese.
Infatti, la Regione calabrese non ha saputo mettere in campo programmi, nuovi strumenti di intervento e di gestione della spesa ordinaria e comunitaria in grado di dare risposte adeguate alla fine del vecchio intervento straordinario. L'unico tentativo è stato quello dell'elaborazione del POR Calabria( per gli anni 2000- 2006), completamente vanificato nella sua attuazione dalla giunta di centro-destra e su cui non si è fatta crescere una forte mobilitazione.
Siamo la Regione che fa più fatica a dotarsi di strutture, apparati, legislazione regionale funzionali alla gestione ordinaria delle risorse e ai nuovi poteri derivati dalla riforma federalista dello Stato. Partire da questa consapevolezza consente di leggere in modo più adeguato i caratteri inediti della attuale crisi e progettare la svolta politica che bisogna affermare.
A questo fine ci pare importante analizzare in modo più adeguato i processi che hanno caratterizzato la fase successiva alla fine dell'intervento straordinario, verso il quale non nutriamo rimpianti di alcun genere.
Questa fase, anche in conseguenza della priorità dell'opera di risanamento dei conti pubblici, non ha visto dispiegarsi, da parte dei governi, una politica meridionalista. Si sono avuti spezzoni di interventi, provvedimenti in grado di intervenire su singoli aspetti, ma non si è avuta una politica complessiva per il mezzogiorno.
La necessità di evitare un aggravamento della crisi economica e sociale ha reso per molti versi ineludibile il ricorso ad un nuovo sistema di relazioni sociali, anche alla luce degli indirizzi comunitari tesi a favorire le pratiche di partneriato nella programmazione e allocazione degli interventi.
Si è così affermata una dinamica concertativa, indispensabile per tentare di passare da una logica meramente quantitativa dei trasferimenti ad una pratica che, al contrario, privilegiasse la qualità degli interventi e la loro funzionalità.
Tra l'altro, questa dinamica era favorita dalle trasformazioni istituzionali e dal nuovo sistema di legittimazione della rappresentanza politico-istituzionale derivata dalla riforma elettorale con il superamento del proporzionale e dalla elezione diretta dei sindaci e dei presidenti di provincia.
La concertazione e la programmazione negoziata, per molti versi, sono stati i tentativi più efficaci di affermare, nel mutato panorama istituzionale, un nuovo protagonismo dei soggetti sociali in grado di attenuare quella asimmetria di legittimazione democratica che il sistema elettorale produceva tra rappresentanza istituzionale, funzione dei corpi intermedi della società, rappresentanza sociale e politica.
In Calabria, però, per grande parte dei soggetti politici, non esclusa la sinistra, la concertazione è stata confusa con nuove pratiche consociative, funzionali esclusivamente ad assicurare un continuismo nelle dinamiche di trasferimento delle risorse pubbliche e, perciò, incapace di affermare scelte strategiche che producessero una diversa idea dello sviluppo e della sua qualità.
Questo eccesso di continuismo ha prodotto una crescita debole, non ha favorito una significativa espansione del sistema produttivo, non ha sostenuto l'autonomia dei soggetti della rappresentanza. In definitiva, ha fiaccato un reale protagonismo democratico, risorsa indispensabile per qualsivoglia politica di rinascita economica, sociale e civile della regione.

La Calabria, secondo tutti i dati forniti dagli istituti di ricerca e di statistica, risulta essere la regione europea con il più alto tasso di disoccupazione e con quello più basso di occupati. Questo fenomeno interessa soprattutto i giovani e le donne.
La disoccupazione colpisce le persone meno secolarizzate e professionalizzate ed è il risultato di due elementi fortemente intrecciati tra di loro: debolezza dell'apparato produttivo di beni e servizi; mancanza di politiche attive del lavoro.
In questi ultimi anni sono ripresi i flussi migratori, essi riguardano soprattutto le persone più professionalizzate, più sicure di sé.
Per invertire questa tendenza, accanto alla lotta per una nuova politica meridionalista del governo nazionale, è necessario riorientare tutte le scelte di politica economica della Regione partendo dal fatto che la Calabria dispone di una preziosissima risorsa: la grande fetta di popolazione giovanile.
E' questo "capitale umano", soprattutto in un Paese come l'Italia con indici demografici negativi, la più grande ricchezza e la vera molla competitiva del sistema Calabria.
Perciò diviene fondamentale porre al centro di tutte le politiche regionali l'accrescimento professionale di questo inestimabile capitale sociale.
Con una battuta, si potrebbe dire che bisogna passare dalla centralità del cemento e dei ponti alla centralità della persona.
In una società come quella odierna -che viene definita società dei saperi- la conoscenza è la leva centrale dello sviluppo, della crescita economica, della possibilità di attrarre investimenti esterni.
Lo sviluppo, infatti, è sempre di più legato alle condizioni di libertà, di civiltà, di democrazia e di funzionamento della Pubblica amministrazione; la competizione tra aree territoriali dipende dalla consistenza di beni civili e dalla rete delle relazioni che in esse si realizzano.
Per questo motivo sono strategiche la scuola, l'Università, la ricerca, i luoghi della produzione culturale..
Perciò bisogna contrastare e mobilitarsi contro le politiche del centrodestra, orientate ad una vera e propria controriforma della scuola e dell'università, e ad un ridimensionamento della ricerca e del ruolo del pubblico in questi settori strategici per il futuro del Paese (ne è testimonianza la minacciata chiusura di fatto del CNR).
Contemporaneamente. bisogna aprire una vera offensiva a livello regionale per rilanciare il ruolo della formazione scolastica, professionale ed universitaria attraverso misure di sostegno e di incentivi che favoriscano la riqualificazione e l'integrazione del sistema formativo calabrese, a partire da quello universitario.Accanto a ciò bisogna rivoltare radicalmente tutto il sistema della formazione professionale regionale diretta e indiretta chiamando a questa operazione, oltre le università calabresi, i più prestigiosi istituti nazionali che si occupano di formazione.
In definitiva, se la risorsa più preziosa della nostra regione sono le ragazze e i ragazzi, è necessario che verso di loro si orientino e riqualifichino la spesa e gli investimenti regionali affinché vengano potenziati tutti gli interventi destinati a quell'accrescimento professionale sempre più necessario in una società che incorpora nuove conoscenze e saperi sia nelle vecchie che nelle nuove produzioni.
Da quanto abbiamo detto finora, è del tutto evidente che noi non riteniamo queste politiche altro rispetto a quelle orientate all'allargamento della base produttiva e del potenziamento infrastrutturale della regione, al contrario ne sono presupposto e fondamento.
Quanto sta avvenendo in tutto il sistema economico e finanziario mondiale, dopo l'ubriacatura degli anni novanta, ci dice quanto fossero fallaci le teorie sulla fine del lavoro e come non è vero che lo sviluppo è possibile anche senza un robusto potenziamento dei settori produttivi.
Proprio lo sviluppo tecnologico e l'affermarsi della società della conoscenza e dell'informazione hanno reso più esplicito che non c'è crescita duratura, sviluppo ed espansione economica senza un allargamento della base produttiva e dell'apparato industriale.
La mancanza di politiche regionali -oltre che nazionali- conferma che al di fuori di forti e selettive politiche di incentivo, in Calabria non c'è crescita ed il divario con il resto del Paese e dell'Europa riprende ad allargarsi determinando un vero e proprio gap di civiltà.
Se si leggono in parallelo i dati regionali relativi alla nascita di nuove imprese e il tasso di disoccupazione (24%), si comprende che non siamo in presenza di una reale crescita di imprese. Promuovere una fase di crescita sarà possibile se si farà leva sui punti di forza che pure esistono nel fragile sistema economico e produttivo calabrese. Questa è la condizione per selezionare gli interventi, concentrare le iniziative, specializzare i territori.
Perciò parliamo di politiche selettive, nel senso che esse devono essere coerenti con l'obiettivo di potenziare le produzioni di eccellenza e le diverse vocazioni dei territori, rafforzando per questa via gli elementi di dinamismo che si sono manifestati e gli investimenti orientati all'accrescimento delle esportazioni di beni e servizi.
Una impostazione di questo tipo è in netta controtendenza con quanti continuano a proporre, anche a sinistra, la ricetta di una totale deregolamentazione del mercato del lavoro, dell'abbattimento del suo costo e, dunque, dei diritti come motore della crescita e dello sviluppo.
Quest'ultima è una vecchia e fallimentare idea che guarda a produzioni a scarso valore aggiunto e a basso contenuto tecnologico. Chi pensa che la competitività si gioca sul costo del lavoro e non sull'innovazione di processo e di prodotto non si rende conto che su questa via si finisce per competere, senza neanche successo, con i Paesi del terzo e del quarto mondo.
A questa politica bisogna contrapporre una idea europea della Calabria che vuole posizionarsi sui segmenti alti della produzione perché solo così, tra l'altro, può esercitare un ruolo centrale nel rapporto con i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo.
Una politica di crescita così concepita presuppone una forte connessione con tutte le scelte destinate ad una valorizzazione delle risorse ambientali e culturali, mettendo fine alla vecchia e stucchevole disputa che ha visto contrapposti i fautori di una politica industriale incurante dell'ambiente e coloro che hanno visto nel turismo l'unica via allo sviluppo della regione.
Questa contrapposizione ha prodotto l'ovvia conseguenza che non c'è stata né crescita industriale, né un reale e qualificato sviluppo dell'offerta turistica in grado di intercettare la sempre più ampia domanda
Per noi l'allargamento della base produttiva ha come presupposti: la formazione; infrastrutture utili (non il Ponte sullo Stretto); l'insieme dei servizi civili (acqua, distribuzione energetica, credito, qualificazione e recupero ambientale). In quest'ottica occorre riprendere i punti e l'ispirazione che sostanziavano la proposta di utilizzazione dei fondi comunitari.
Accanto ad essi bisogna potenziare i beni civili a partire dalla qualità della democrazia. Essa continua ad essere molto debole non solo a causa del cattivo funzionamento delle Istituzioni, a partire dalla Regione, ma soprattutto per il perdurare di una diffusa illegalità.
Questo dato rischia un pesante aggravamento anche a causa delle politiche distorsive sulla giustizia messe in atto dal Governo Berlusconi che stanno già producendo un abbassamento dello spirito pubblico storicamente già debole in molti settori della società calabrese.
La sinistra ha il dovere di aprire una forte battaglia culturale nella regione per affermare comportamenti trasparenti, una pratica della legalità come condizione normale nella vita delle persone.
Perché, ciò non sia solo una aspirazione ed un richiamo moralistico bisogna mettere in campo politiche che rendano esplicito che il civismo paga ed è conveniente nella vita delle comunità e dei singoli.
Affermare una cultura della legalità, però, vuole dire innanzitutto riprendere la lotta alla criminalità organizzata e alla 'ndrangheta, facendo di essa uno dei punti strategici su cui mobilitare la società civile calabrese.
Alla fine degli anni ottanta e fino al 1995 anche in Calabria, come in Sicilia, si è sviluppata una impegnata azione di contrasto ai poteri criminali non solo per il preziosissimo lavoro delle forze dell'ordine e della Magistratura, ma anche per una vasta mobilitazione sociale e per l'impegno profuso da molte associazioni.
Questa tensione positiva è stata a nostro avviso fondamentale nell'affermazione delle forze di sinistra in molte aree della regione ed ha consentito l'insediamento in fondamentali realtà urbane della Calabria di amministrazioni progressiste.
La mancanza da parte di gran parte delle forze politiche di un coerente sostegno a queste esperienze non ha consentito un loro consolidamento.Oggi la situazione appare preoccupante non solo per l'aumento dei crimini, ma anche per la crescita della presenza della criminalità organizzata in importanti settori dell'economia, in particolare nei lavori pubblici, nei servizi e nel commercio, cui corrisponde una minore capacità di contrasto da parte dello Stato.
La sottovalutazione,la disattenzione,l'abbassamento della guardia hanno portato ad un rafforzamento della mafia e ad un suo rinnovato rapporto con pezzi della politica e delle istituzioni.
Bisogna produrre un impegno davvero eccezionale contro tutti gli elementi di sottovalutazione e di collusione e degli effetti che ciò produce nell'economia, nelle relazioni sociali, sul grado di libertà delle persone.
Lo sforzo continuo di minimizzazione del fenomeno, che si ammanta di un falso garantismo, ha prodotto già notevoli guasti negli orientamenti di importanti settori sociali e nasconde la volontà di mantenere atteggiamenti di ambiguità , produttivi di vantaggi di carattere elettorale.
La linea del governo di attacco alla magistratura viene letta come un incentivo alla riduzione degli spazi di legalità in tutti i settori della vita sociale e istituzionale.E' questo un punto di particolare rilevanza, come i fatti , a cominciare da Lametia T. ma non solo, si stanno drammaticamente incaricando di dimostrare. Se è vero che negli anni passati la magistratura ha compiuto, a volte, erronee valutazioni e generalizzazione, è soprattutto vero che in Calabria non si sono recisi i fili che hanno tenuto legati la mafia e parti consistenti della politica e che su questo terreno sono potuti proliferare nuovi collegamenti.
Alla magistratura, oggi, si deve richiedere non un minore, ma un maggiore impegno ed efficacia nell'azione di contrasto alla criminalità organizzata. Ad essa bisogna assicurare non minore autonomia,ma minori condizionamenti e più autonomia. Ciò è condizione essenziale per un'azione che faccia fronte alla maggiore pervasività della mafia nell'economia e nella società.
Perciò le forze di progresso non possono abbassare il loro livello di mobilitazione nella consapevolezza che lo sviluppo e la crescita della regione passano attraverso la sconfitta della criminalità organizzata che alterando le stesse dinamiche del mercato bloccano e disincentivano gli investimenti.
Questo obiettivo sarà più efficacemente perseguito se nella Pubblica Amministrazione, a partire da quella regionale, si affermerà la trasparenza nella gestione della cosa pubblica, se si favorirà la partecipazione popolare alle scelte amministrative e di governo facendo in modo che ognuno percepisca che è possibile mettere l'Amministrazione a servizio delle persone e dell'economia sana.
Il nostro obiettivo è affermare una cultura dei diritti e del diritto.La questione dei diritti è la cartina di tornasole per ridefinire un profilo riformista nell'azione politica della sinistra ed il discrimine su cui costruire alleanze e schieramenti.
Si tratta non solo di riaffermare i contenuti delle nostre più tradizionali battaglie su questo terreno, ma di rendere senso comune che, sul terreno dei diritti negati, si consuma il divario di civiltà della Calabria con il resto del Paese.
Oggi più che mai affrontare la questione dei diritti significa misurarsi con il disagio esistenziale di gran parte delle nuove generazioni calabresi, affrontare i temi delle vecchie e delle nuove povertà determinate da una bassa offerta di servizi e di beni relazionali.
Ciò impone grandi processi di trasformazione nelle politiche di Welfare che se da una parte passano dalla battaglia più generale per la difesa e l'allargamento dei diritti in essere e di cui bisogna affermare l'universalità, dall'altra presuppongono, alla luce dei processi di federalismo realizzati, una nuova capacità di organizzazione di un Welfare locale coerente alla necessità di dare risposta al forte disagio sociale, ai vecchi e nuovi bisogni dei calabresi.
Infatti, sempre più diffusamente l'esigibilità dei diritti passa attraverso sistemi sociali locali in grado di assicurare efficaci reti di tutela.
Per tutti pensiamo al diritto alla salute, oggi strettamente dipendente dalla qualità dei servizi sanitari organizzati regionalmente. Proprio in questi mesi si è resa evidente l'urgenza di interventi orientati a coniugare qualificazione e risanamento finanziario del settore in modo da assicurare da una parte standard qualitativi delle prestazione in linea con quelle nazionali ed europee e dall'altra interrompere la spirale dell'indebitamento.
Sanità, diritto allo studio, qualificazione del sistema formativo, politiche attive di sostegno al reddito che, superando una logica meramente assistenziale, ne determino una funzione promozionale sono il terreno su cui la sinistra -che recupera senso di sé e del proprio agire politico- deve aprire una offensiva nelle sedi istituzionali e una vasta mobilitazione popolare.
Senza politiche sociali in armonia con l'obiettivo di rafforzare la crescita delle persone ed il loro grado di sicurezza, le stesse flessibilità nel lavoro hanno finito per alimentare una svalorizzazione del lavoro e un diffuso senso di precarietà esistenziale, soprattutto tra i giovani.
Per noi un moderno Stato Sociale non è solo spesa, ma anche elemento di crescita economica e sviluppo della regione, di allargamento della base occupazionale; può dare nuova linfa all'economia sociale non solo attraverso l'impegno per la soddisfazione di tanti bisogni oggi insoddisfatti, ma anche attraverso la valorizzazione dell'ambiente, il recupero urbano, la produzione artistica e culturale.
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Con questo documento, aperto al contributo delle compagne e dei compagni e di quanti vorranno proporre, nelle prossime settimane, suggerimenti ed integrazioni, intendiamo promuovere un dibattito ampio nei DS, nel centro-sinistra e nella società calabrese con le sue forze migliori. Un confronto politico non più rinviabile ed al quale l'Associazione Aprile in Calabria, con questo documento, vuole dare un contributo originale e partecipato di elaborazione al servizio dei DS e dell'intero centro-sinistra.
Nell'ultimo congresso regionale dei DS il nuovo gruppo dirigente si era impegnato a convocare, su nostra proposta, entro pochi mesi, un momento di riflessione e di elaborazione sulla nostra regione, sui suoi cambiamenti, sul programma da mettere in campo per i prossimi anni. E' passato un anno e di quell'appuntamento non vi à ancora traccia. In questo modo, ed in maniera costruttiva, come sempre del resto, intendiamo fare la nostra parte perché ci stanno a cuore il futuro dei DS, della sinistra, del centro-sinistra e, innanzitutto, della nostra regione.

 

Caulonia li, Novembre 2002

Franco Ambrogio