Pubblichiamo un saggio sul '68 a cura della professoressa Nadia Capogreco, docente presso il Dams dell'Universita' della Calabria.
Il saggio è parte del libro che verrà pubblicato prossimamente, sulla vicenda politico-culturale di quegli anni.

SOGNI , BISOGNI E UTOPIE NELLA CANZONE POLITICA DEL ‘68*
                                                                                                                                              di Nadia Capogreco

E' senz'altro meglio conoscere questi fenomeni e questi
desideri per capirli che non ignorarli e disprezzarli come
                 puerili      fantasie.    Meglio   ancora,    però,    scoprire   e                  
 analizzare le credenziali, le  ragioni e  le implicazioni  che  
stanno all'origine e al presumibile sbocco di ogni attesa.


                                                                               REMO BODEI
                                                                   Libro della speranza


L'arte e l’evento si illuminano a vicenda; hanno valore
   
 
     d’indice  l’uno   nei    confronti  ll’altro,  anche   quando          
invece di confermarsi essi si contraddicono.
                   

 
                                                                JAN STAROBINSKI
                                   1789: I sogni e gli incubi della ragione

 

Feste e azioni festive

Ci sono momenti in cui la storia come continuum viene interrotta e il tempo storico cede il posto al tempo mitico. Sono, questi, gli istanti della festa. E' molto difficile, per l'uomo dei nostri tempi, avere un'idea precisa di ciò che essa è; la sua essenza, infatti, risiede in un particolare senso della collettività di cui la società contemporanea sembra essere orfana.
Come ha scritto Furio Jesi (Jesi 1977, p.6),

non disponiamo […] di alcun rapporto storico - che non sia di pura osservazione, e parziale, precaria, dei diversi - con il “senso della festività”, con il “festivo”. Siamo innanzitutto estranei alla qualità collettiva di un “festivo” tale che nel più profondo [di esso] vi sia qualcosa che è più affine alla giocondità che alla malinconia. L'unica festa sui generis che ci rimane accessibile è la “festa crudele” in cui appare, sì, un'esperienza collettiva, ma solo un'esperienza collettiva di violenza e di dolore.

Il bisogno di festa, la sua urgenza, rimangono tuttavia immutati nell'esperienza e nella sensibilità dell'uomo contemporaneo, tanto più che l'esplosione festiva (collettiva) è implicitamente negata da un sistema sociale che è strutturalmente antifestivo; esso, infatti, nel tentativo di incanalare l’inevitabile carica eversiva della festa, la “depura” della sua vera essenza semplificandola in "azione festiva". L’azione festiva - che invece di minacciare la quotidianità la fortifica - coinvolge una modesta dinamica temporale, un frammento di tempo ordinario in cui si attua un complesso irrigidito di azioni che vengono compiute in quanto efficaci promotrici di reputazione, di good fame (Jesi 1977, p.21). Le attuali azioni festive, dunque, in quanto schegge del quotidiano scorrere degli eventi non negano il tempo ordinario; semplicemente, lo rallentano e lo amplificano nel tentativo di eternizzarlo.
Nella “vera” festa, al contrario, il tempo della quotidianità è negato, e gli atti nascono e si compiono in una dimensione temporale che appare totalmente estranea alla normalità. In questo «intermezzo di confusione universale» - ha scritto Caillois (Jesi 1977, p.7) - l'ordine cosmico è soppresso e tutti gli eccessi sono leciti. «Bisogna agire contro le regole, tutto deve accadere alla rovescia»[1]. L’individuo-collettività si libera così dai condizionamenti e dall'oppressione della storia, si emancipa da essa e fonda un nuovo ordine temporale che si pone subito contro l'ordine preesistente e che, nullificandolo, nega con esso l'intero ordinamento sociale di cui è stato espressione. Ecco perché la coscienza di far saltare il continuum della storia, come aveva sostenuto Benjamin, è propria delle classi rivoluzionarie nell'attimo della loro azione (Benjamin, 1966)[2].
Il bisogno di festa, l'esigenza di sentirsi finalmente causa agente della storia, la volontà di non sottostare più al potere omologante dell'ordine dato, non trovando possibilità d'espressione nelle feste collettive (ridotte ormai a innocue azioni festive), trovano dunque spazio ed esplodono nell'azione rivoluzionaria. Certo, l'intervallo di tempo in cui ciò avviene è sempre breve[3], tuttavia la storia, e con essa la ragione istituzionale, precipitano in un vero e proprio incubo, assistendo impotenti a una rottura epistemologica che riapre le porte ai sogni e ai procedimenti mitici.

L’ultima festa

Un nuovo senso della collettività, l’emergenza di nuovi valori culturali, la volontà di liberarsi dall'oppressione sociale, l'onnipotenza di chi ritiene di poter attuare un ricominciamento della storia, sono elementi che concorrono, tutti, a definire il clima dell'ultima festa, ovvero dell'ultimo evento che, al pari della grande rivoluzione del 1789, assume a pieno titolo il diritto di imprimersi nel calendario dell'uomo occidentale.
Il grande evento fu il '68[4].

…È stato anzitutto un ghirigoro della fantasia, un innamoramento collettivo, una transe. Transe, certo, come dire il trans-ire da un ordine sociale vissuto con disagio, alla catarsi di un disordine festoso; da un'omologazione frustrante, ad una deomologazione multiversa e creativa: […] uno stato di comunicazione esplosa, molto simile a una festa dionisiaca; un attraversamento del "meraviglioso" che tutto e tutti coinvolse e sconvolse (Curcio 1988).

Il '68, in Italia, rappresentò l’esplosione di grandi contraddizioni sociali, fra le quali una scuola di massa autoritaria e selettiva, una società civile e una composizione di classe segnate profondamente dalla riconversione industriale.

Gli studenti scendono in piazza, occupano università, alzano barricate. Molti valori tradizionali vanno in frantumi. Per un attimo, durante il maggio francese, il ’68 sembra l’anno della rivoluzione. Molte cose avvengono in quei dodici mesi e molte cose cambiano. In tutto il mondo quell’anno incredibile è sinonimo di violenze e proteste, ma anche di novità e speranza. Esplodono insieme contraddizioni e bottiglie molotov (Scialoja 1990).

Da quelle contraddizioni si librarono le espressioni creative e antiautoritarie che caratterizzarono fortemente la lotta degli studenti, cosicché il panorama del '68 divenne subito emblematico di un bisogno vasto, collettivo, di risposte non istituzionali e non strutturali a una domanda di maggiore libertà. Un processo sicuramente utopico, nella misura in cui le richieste non stavano tanto nell'esigenza di soddisfazione di bisogni immediati, quanto nel tentativo di soddisfare bisogni ultimi: l'immaginazione al potere, il desiderio come principio attivo (società "desiderante"), l'antiautoritarismo come negazione del principio di autorità[5].

Il nostro '68 fu un delitto. Un delitto nel senso letterale del termine, ovvero “sottrarsi al dovere”.
Buttando a gambe all'aria molti e consolidati codici, ci sottraemmo infatti: alla razionalità innovativa dell'élite neo-capitalistica; all'irrazionalità conservatrice del sistema politico; ad una cultura androcentrica millenaria; all'autoritarismo ridondante dell'Accademia. Ci sottraemmo a queste e ad altre cose ancora, per lanciarci, a tutto corpo, in una sfida ebbra di desiderio e senza alcun progetto (Curcio 1988)[6].

Addentrarsi nelle scelte e nel conflitto sociale scaturiti dal '68 potrebbe forse servire a spiegare i successi e i fallimenti di quanto sarebbe avvenuto dopo; ciò che qui interessa, tuttavia, è ritrovare il momento unificante iniziale in cui le contraddizioni esplosero come una festa e l'evento prese la portata del mito, venendo così ricordato.

La musica della festa

Una lettura del '68 (nelle caratteristiche che il movimento studentesco assunse in Italia), attraverso le sue espressioni musicali, ha posto inevitabilmente la questione fondamentale: ci fu una musica che, specificamente, espresse il '68? Per rispondere a ciò si è pensato, in una prima fase, di identificare ed analizzare le varie forme di espressione musicale rintracciabili in quell'anno fatidico. Così facendo, però, si rischiava di ridurre l'evento '68 all'anno 1968, momento di scansione cronologica di un decennio che, nella memoria dell'oggi, si identifica musicalmente nel sound tipico che caratterizza l'intero corso degli anni '60[7]. L'esigenza, quindi, è stata quella di isolare l'elemento musicale specifico che aveva caratterizzato l'attimo della "festa"( in particolare l’occupazione delle università), ricorrendo ai ricordi di chi ha vissuto l'evento. Si è così rilevato un processo di separazione ideale che ha collocato la musica del '68 in un categoria ben differenziata rispetto a quella degli anni '60; una separazione operata da una memoria che ha caratterizzato-mitizzato gli anni '60 in quanto momento di evasione[8], contrapponendoli al '68 che appare, invece, come l'anno dell'impegno[9].
«Era un periodo in cui si aveva l'impressione, giusta o sbagliata non è tanto importante, di parlare realmente con le persone», ci dirà Paolo Pietrangeli (Pietrangeli 1991*). E la convinzione di essere finalmente ritornati all'immediatezza della comunicazione fece della parola il luogo mitico dell'espressività ritrovata. La parola studentesca straripò «come un fiume in piena, diffondendosi per ogni dove, arrivando ed insinuandosi dappertutto, tanto che sarebbe in una certa misura legittimo definire […] la rivolta universitaria una presa della Parola (come si dice: presa della Bastiglia)» (Barthes 1988, pp.162-163).
Sostenuta da questa euforia, la parola si sposò alla musica, in un connubio comunicativo che avrebbe permesso al movimento studentesco di propagare con più efficacia i motivi e le aspirazioni della sua "festa".
«Nel '68 - ricorda Fausto Amodei - durante l'occupazione della facoltà di Architettura qui a Torino, ci chiamavano per cantare. Cantavamo anche per sette ore di fila…Loro dovevano passare lì tutta la notte, e noi li aiutavamo». (Amodei 1991*). Ma quali canti accompagnavano gli studenti in lotta? Ricorda ancora Amodei: «per quella che era la mia esperienza insieme ai miei amici, direi che il '68, a livello di canzoni, era rappresentato da Contessa, di Pietrangeli, da O cara moglie, di Della Mea, e dalla mia Per i morti di Reggio Emilia, che addirittura avevo composto nel '60».
Temi politici, privati e sociali, dunque, perché la protesta degli studenti, seppure inizialmente limitata fra le mura delle università, toccava tutti i settori della società civile. Alla messa in crisi del contesto universitario istituzionale, corrispondeva infatti lo sforzo dell'Università Critica[10] per la definizione di una figura nuova di laureato e, sostanzialmente, di uomo. L'idea di uomo nuovo, strettamente associata al rifiuto della delega, sfociava in un senso individuale di partecipazione al movimento, inteso come unico universo possibile per il cambiamento della società.

Contessa

Compagni dai campi
E dalle officine
Prendete la falce
Impugnate il martello!

Sono in molti quelli che già al grido di attacco del famoso ritornello di Contessa si sentono proiettati nel cuore delle lotte studentesche.

Scendete giù in piazza
Picchiate con quello
Scendete giù in piazza
Affossate il sistema

Il testo, tuttavia, induce immediatamente a qualche perplessità. Dai primi versi ciò che appare evidente è che si tratti di un canto operaio; l'invito, infatti, è più che mai esplicito, e con esso i destinatari: contadini e operai. Ma il '68 è l'anno degli studenti e la contestazione scoppia all'interno delle università. Non è un caso, quindi, che l'autore della canzone sia proprio uno studente, Paolo Pietrangeli, iscritto, nel '68, alla facoltà di lettere dell'università di Roma. «Contessa – ci racconterà lo stesso Pietrangeli - non è stata composta nel '68 ma due anni prima. Stando dentro al movimento, uno riesce a sentire certi umori prima di quando, poi, essi non vengono e non si palesano in maniera ufficiale…».(Pietrangeli 1991)
Ritenuta uno dei più begli inni proletari del dopoguerra (Portelli 1976, p.156), Contessa pone subito qualche problema che merita di essere affrontato. Se, infatti, si considerano i testi come dei meccanismi di liberazione che riflettono la natura prevalente dei valori culturali (Merriam 1983), è difficile supporre che i valori di Pietrangeli fossero radicati all'interno della classe da lui cantata anche perché, in quanto figlio di un famoso regista cinematografico, egli aveva sicuramente poco modo di vivere le aspirazioni e i bisogni reali della classe operaia. C'è da chiedersi, dunque, se questi valori non fossero stati mutuati dal movimento, dai cui umori lo stesso Pietrangeli dirà di aver tratto ispirazione. Proprio sul movimento studentesco, quindi, spostiamo la nostra attenzione.
Da accurate indagini svolte sulla loro provenienza sociale, sappiamo che i giovani del '68 erano appartenenti a famiglie economicamente solide, espressione della classe media di mentalità liberale. «Il carattere autoritario che il movimento di coloro che si chiamano antiautoritari presenta nei confronti di quelli che non vi appartengono – scriverà Tullio-Altan - si spiega anche con il carattere difensivo, se lo si i intende come movimento di difesa della borghesia istruita» (Tullio-Altan 1974, p.90). La protesta studentesca, dunque, sembrava avere connotazioni decisamente di classe; la maggioranza dei giovani che nel '68 cantavano la rivoluzione proletaria, infatti, non apparteneva al proletariato. Ma allora: per quale motivo cantarne le aspirazioni?
Ha scritto A. Portelli:

la classe operaia evocata nel ritornello di Contessa non è tanto la classe operaia storica quanto la classe operaia simbolica. Si riversa nelle strade stringendo in mano, appunto, i simboli della sua tradizione, la falce e il martello. [D'altra parte] un simbolo non è meno reale di un fatto, quindi […] gli operai di Contessa [non] sono irreali e falsi. Sono realissimi: sono gli operai come li vedevamo noi [studenti], il richiamo ideale e simbolico che la classe operaia costituiva per i comunisti del '68 e dintorni (Portelli 1976, p.156).

Nel simbolo - come ha evidenziato Ricoeur – un senso diretto, primario, letterale, designa per sovrappiù un altro senso indiretto, secondario, figurato (Ricoeur 1977, p.26). La classe operaia cantata dalla canzone del '68, dunque, necessita di non essere sclerotizzata nel suo significante letterale. Essa sta anche per altro. C'è da pensare, tuttavia, che essa stesse essenzialmente per altro, dato che - come nota Portelli - «pochissime delle nuove canzoni di lotta sono entrate a far parte del repertorio degli operai: anche quando l'argomento erano gli operai [infatti], le canzoni non parlavano di loro ma di noi [studenti]…» (Portelli 1976, pp. 158-159).

La Patria Proletaria

Nel marzo 1968, Marco Boato - allora studente nella facoltà di sociologia dell'università di Trento - così spiegava le intenzioni del movimento:

Credo che si debbano distinguere due fasi:…[una prima]… in cui si accentuerà l'impegno sui problemi per allargare la base sociale, per recuperare a livello di massa il movimento studentesco. … Una seconda…, sul piano politico, che sarà la logica conseguenza del discorso sulla contestazione globale e sulla strategia rivoluzionaria del movimento, che sarà in allargamento al di fuori dell'università e quindi anche porrà il problema dell'allargamento con le altre forze sociali e con le altre forze politiche, principalmente col movimento operaio"(Boato 1968).

Il movimento studentesco, dunque, decide di allargarsi, di farsi politico, e di legarsi ad una classe non sua della quale, comunque, si costituisce come avanguardia intellettuale. Esso "adotta" il proletariato e si impegna a guidarlo nella fase di passaggio che lo condurrà alla guida della società e alla creazione di una cultura autonoma. Il movimento degli operai verrà sostenuto nella fase di transizione, fino a che i germi della cultura della loro classe avranno peso, storia e autorevolezza sufficienti. Ciò spiega perché la canzone politica non è espressione diretta ma mediata del movimento reale e delle sue lotte: la ragione fondante risiede proprio in questa mediazione, che richiede la figura dell'intellettuale (il cantante-autore) e che fa di essa una canzone sul movimento e non […] del movimento-autore (Dessì-Pintor 1976, p.15).I giovani intellettuali del ’68, dunque, facevano propria la tradizione popolare-proletaria. Ma cosa li spingeva realmente verso questa scelta?Una risposta può venire dalla testimonianza di Roberto Leydi, secondo il quale questo atteggiamento aveva cominciato a diffondersi già all'interno della sua generazione (la gioventù dell’immediato dopoguerra), che aveva notoriamente mitizzato l’America e, con essa, il jazz:

Che cosa era questa America per noi? Era la disperata ricerca di una patria da parte di una generazione senza patria. Non potevamo riconoscerci nell'Italia di Vittorio Emanuele II o di Cavour, di Crespi o di Leonardo da Vinci. Avevamo bisogno di una patria popolare , e il jazz era questo: una patria popolare. Cioè era l'esigenza di riconoscerci dentro a un mondo di lavoratori, di operai di fabbrica o contadini. Ciò avveniva intellettualisticamente, perché in realtà ignoravamo che questo mondo esistesse anche qui. Il mio passaggio all'interesse per il mondo popolare si verifica quando ho cominciato a rendermi conto che questa patria americana era un'astrazione e che era possibile trovarla qui.(Bermani 1978, p.9)

La patria popolare come patria ideale, dunque, mitico luogo di identificazione affettiva e storico-culturale per una generazione che soffriva di crisi d'identità[11].
E le profonde trasformazioni avvenute nei decenni successivi alla fine della guerra erano tra le principali responsabili di questa accresciuta esigenza. Si deve considerare, infatti, che la composizione professionale della popolazione italiana rimane sostanzialmente stazionaria dal 1900 fino agli inizi degli anni '50; mentre a partire dal 1951 cambia in misura sconvolgente, trasformando l'Italia da paese prevalentemente agricolo in grande potenza industriale.
Il processo di industrializzazione, la cui evidenza è innegabile per quanto riguarda l'aspetto morfologico della struttura economica, non intacca tuttavia il modo d'essere interiore dell'italiano medio che, secondo Ferrarotti, ha «i piedi nel mondo industriale moderno, e la testa, i valori, gli atteggiamenti psicologici, ancora fermi al 'paese mio’» (Ferrarotti 1983, p.14).

Ma torniamo all’interessante racconto di R. Leydi:

La mia coscienza politica era 'istintivo-retorica', mitologica, cosmopolita, tipicamente radical-borghese, anche se colorata di rosso. Nella vicinanza di Gianni Bosio[12] quello che era un fatto astratto e mitologico diventa un fatto concreto, è l'acquisizione che la Rivoluzione d'Ottobre c'è stata davvero.(Bermani 1978, p.9)

E' facile, dietro queste parole, avvertire un’ulteriore sostituzione ideale e affettiva: dalla patria americana alla patria sovietica, la cui presenza "reale" è acquisita attraverso gli echi (dunque attraverso le mediazioni simboliche) che di essa giungono nella sinistra italiana[13]. Il mondo operaio, erede della grande rivoluzione sovietica e cinese, diventa così la "patria ideale" per cui combattere la guerra delle guerre, la guerra finale, che preluderà alla giustizia e alla totale pacificazione sociale[14].

Nessuno più al mondo
dev'essere sfruttato

ammonisce-tranquillizza Pietrangeli nell’ultimo verso che conclude il ritornello di Contessa, tenendo così fede ad una delle caratteristiche più tipiche dell'innologia operaia che incita all'odio contro i ricchi ma che reclama, nel mondo pacificato, uguali diritti per tutti.

Un meta-testo

Cosa cantavano i testi della canzone politica? Dall'estrema ridondanza delle situazioni proposte, sembra quasi che essi avessero la proprietà di attribuire azioni (funzioni) identiche a personaggi diversi e che fossero proprio le azioni gli elementi costanti su cui essi si fondavano (Propp 1972). Sulla base delle funzioni svolte dai personaggi è infatti possibile individuare una sorta di "metatesto" la cui apparente eterogeneità, per le situazioni e i temi trattati, è generalmente contestualizzabile nell’ambito di uno scenario spazio-temporale ben preciso: la piazza, la fabbrica, il cantiere, il palazzo, lo sciopero, l'occupazione, il corteo…; negli istanti, comunque, che preludono alla Rivoluzione.
Le funzioni sono generalmente inscrivibili nello schema:
a) Denuncia (di una situazione che crea malessere);
b) Identificazione (del nemico responsabile);
c) Incitazione alla lotta (contro questo nemico);
d)Prefigurazione della vittoria e della felicità futura.
Tutto ciò all'interno di un contesto di valori che ribadisce, manicheisticamente, la classica divisione fra "buoni" e "cattivi". Buoni, ovviamente, gli operai, gli studenti, i "compagni", i partigiani… Cattivi i padroni, i borghesi, i crumiri, la polizia , i fascisti, il “sistema”[15].
Ma la canzone politica ha anche, seppure in minor misura, momenti privati. Ed ecco che dalla strada, l'azione (che in questo caso è più una riflessione) si sposta in uno scenario più intimo, poco descrittivo, che del privato non lascia trasparire connotazioni spaziali, ma che contestualizza in un ambito più ristretto (la casa, che si intuisce ma di cui non si parla) gli echi della guerra che si combatte nella strada; echi di cui risentono anche le manifestazioni e i desideri più intimi. Così l'amore per la propria compagna diventa

l'amore che riesce a sentire
chi per a libertà lotta e muore
verso la libertà di chi vive…

si ama il proprio partner perché è capace di infondere

                                   il coraggio
di ascoltare l'antico richiamo
verso un mondo più giusto e più saggio (F. Amodei, Una cosa già detta).

E così, in O cara moglie (I. Della Mea), la famiglia è il luogo in cui il “combattente”, stanco, scarica la rabbia per la sconfitta ma rinvigorisce la sua volontà di continuare la lotta.
Nel mondo della canzone politica, dunque, il bene combatte contro il male; gli operai combattono contro i padroni in un contesto temporale ben preciso: l'attimo che precede la Rivoluzione proletaria.
Ma abbiamo visto che la classe operaia cantata dagli studenti del '68 non era quella storica, e che la canzone politica "intellettuale" avrebbe avuto scarsa risonanza nella tradizione del canto operaio. Ciò perché, come ha sostenuto Tullio-Altan ,

la classe operaia …non poteva muoversi in base alle medesime motivazioni che erano quelle dei giovani borghesi delle scuole e delle università. Non esisteva, se non nell'immaginazione, un'unica coscienza di classe fra i due gruppi, degli studenti e degli operai, divisi fra loro da un vero e proprio gap culturale (Tullio-Altan 1974, p.107).

Ancora di più, dunque, si può sostenere che nei testi di quelle canzoni regole e parole servissero «a costruire immagini e azioni che rappresentano, a un tempo, significati normali in relazione ai significati del discorso, ed elementi di significazione in relazione ad un sistema significativo supplementare, che si situa su un altro piano» (Lévi-Strauss 1978, p.183).
Ma quale poteva essere questo "sistema significativo supplementare"? Qual era l’ ‘altro piano’ che alimentava la rabbia e che spingeva i figli dei borghesi all'invettiva contro i borghesi?
E' forse utile, a questo punto, ritornare ai protagonisti del movimento, nella convinzione che

le vicende dei movimenti giovanili di contestazione nelle società industriali…ci pongono di fronte a tutta la complessità di questo problema, che non pare più risolubile nel quadro di una concezione schematica e tradizionale dei conflitti di classe o di generazione, ma richiede di essere collocata in un quadro molto più ampio, che tenga conto delle conseguenze sociali e culturali della nuova rivoluzione industriale (Tullio-Altan 1974, p.13).

Abbandonata, perciò, l'indagine all'interno di ciò che superficialmente è leggibile nei testi delle canzoni, cerchiamo di indirizzare la nostra attenzione verso il campo dei bisogni e dei valori che alimentavano il movimento studentesco. Ci accorgiamo che la convergenza di intenti fra studenti e operai risulta impossibile per un divario generazionale che non è tanto anagrafico quanto socio-culturale: mosso da bisogni secondari[16], il movimento studentesco vede più in avanti; i suoi sono i bisogni della "seconda generazione", sono cioè istanze e aspirazioni rese possibili proprio dall'enorme grado di espansione del sistema produttivo.
Scrive, infatti, Tullio-Altan:

Dalle misurazioni condotte con le nostre scale abbiamo potuto scoprire qualcosa di più in questo senso: i nuovi valori debbono orientarsi verso una socialità più autentica e personalizzata, e portare all'accettazione positiva dell'alterità, in luogo del sistematico rifiuto o strumentalizzazione di essa, che ha certamente caratterizzato la cultura "latente", ma non per questo meno attiva, caratteristica del sistema capitalistico euro-americano (Tullio-Altan, 1974, p.81).

E' dunque plausibile che i giovani del '68, in quanto appartenenti alla classe agiata, almeno «temporaneamente immuni dal senso di insicurezza economica e, nello stesso tempo, aperti alle sollecitazioni e alle informazioni che giungevano loro attraverso i canali della scuola, e soprattutto dalla controcultura giovanile»(Tullio-Altan 1974, p.81), non odiassero i padroni perché la busta-paga degli operai era bassa, ma perché li ritenevano responsabili di quel disagio esistenziale e di quel malessere diffuso che essi, nonostante fossero i figli della classe agiata ufficialmente detentrice della "felicità", avvertivano in modo sempre più insopportabile[17]. Così, la vera lotta non era tra operai e padroni, ma tra figli e padri borghesi. Il "padrone" della canzone politica è il padre-padrone che ha ucciso i valori della socialità e dell'accettazione positiva dell'alterità…è il padre che ha alienato la sua umanità, ma anche quella dei suoi figli, in nome del profitto e del guadagno. Alla società dei padri i giovani

avanzano una serie di richieste politiche e sociali attinenti alle libertà civili, di contro alle condizioni di alienazione indotte da un sistema sociale nel quale il principio del profitto monetario costituisce il massimo valore sociale di riferimento (Tullio-Altan 1976, p.13).

I padri, però, non vogliono o non possono più ascoltare.
Una generazione "orfana", dunque, che trova il coraggio di assaporare, seppure per un attimo, la felicità della "vera" festa… della “vera” patria, del “meraviglioso”. Ma nessuno può accompagnarla in questa scoperta… non ci sono i padri. E la storia, per farsi tale, ha sempre bisogno dei padri.

Caro padrone, domani ti sparo…canta ironicamente ma anche rabbiosamente Paolo Pietrangeli. Solo qualche anno prima, Ivan Della Mea (in La grande e la piccola violenza) aveva cantato:

Ieri mio padre è morto
solo e senza niente.
Io l'ho visto
Nella stanza ardente.

Una carcassa vuota
ma anche così acconciato
uno poteva capire
quello che era stato.

Reazione o rivoluzione?

«E' perlomeno curioso», hanno affermato Fabbri e Fiori,

che la forma che si pregia del titolo di "politica", che la forma d'arte rivoluzionaria espressa da un movimento di giovani operai e studenti, proiettandosi verso il futuro si ritrovi in pieno medioevo; perché sì, dobbiamo dirlo a costo di essere fraintesi e banalizzati: la canzone politica manca soprattutto di modernità (Fabbri, Fiori 1989, p.341).

Certo, sul piano formale la canzone politica non ha apportato alcuna innovazione al linguaggio musicale tradizionale; sembra, anzi, averlo accettato in modo passivo. Nessuna nota blue[18]…nessuno spostamento specifico degli accenti ritmici essa può vantare. Non sembra arrivare, insomma, a soluzioni musicali tali da poter connotare, stilisticamente, un genere.
C’è dunque da chiedersi: come mai un movimento rivoluzionario scelse, per esprimersi, forme musicali tradizionali?
Ecco le parole di un ex studente del movimento:

Quando hai un contatto con la realtà sociale, con un operaio delle fabbriche che vive in un quartiere, che ha una moglie, che ha dei bambini, tu non puoi far sentire i Deep Purple…e allora bisogna trovare un mezzo di comunicazione … La canzone politica di quegli anni faceva proprio questo. Io, infatti, in quegli anni ho mollato tutto il beat per la canzone politica…(Pregnolato 1990*).

La canzone del ’68, dunque, decise di essere "usufruibile" dalla classe sociale a cui sentiva di essere destinata; volendo rivolgersi alle masse, si vestì degli abiti popolari[19] e scelse di non attaccare i principi del linguaggio musicale dominante perché, oltre agli oppressori, in esso si identificavano affettivamente e culturalmente anche gli oppressi[20].
Le canzoni, come dirà Pietrangeli,

non erano soltanto patrimonio comune; [già] nel momento i cui si facevano c’era proprio il piacere di farle sentire anche ad un piccolo gruppo di amici, di persone con cui ci si riuniva…(Pietrangeli 1991).

Sin dalla nascita esse ambivano ad essere collettive, rifiutando in tal modo il mito romantico-borghese dell’individualità creatrice[21]. Questa scelta, coerentemente con la politica del movimento, le inseriva a pieno titolo non solo nella tradizione del canto popolare nostrano, ma anche nella più grande tradizione della musica extra-europea, caratterizzata dalla mancanza di una casta di specialisti ufficialmente delegata dalla collettività e addestrata a comporre la “vera” musica[22].
Se, come recitava un famoso slogan di quegli anni, la democrazia è partecipazione, occorreva che anche nei confronti della musica la partecipazione di tutti fosse realmente possibile. Non a caso, dunque, «la figura del musicista, il suo ruolo, le sue attribuzioni professionali, non …[coincisero]… in questo caso con nessuna di quelle che la divisione del lavoro e la distribuzione dei ruoli ha assegnato alle varie figure dei musicisti tradizionali» (Baroni, Giuffrida 1976, p.16). Nella canzone politica la distanza storicamente consolidata fra il pubblico e l'esecutore scompare magicamente, e il pubblico della musica ridiviene comunità partecipante ad un rito collettivo[23].

Se la musica – come ha sostenuto Blacking - non ha il potere di trasformare la società, ma di confermare delle situazioni già esistenti (Blacking 1986, p.73), dai comportamenti della canzone del '68 sembra che si possa leggere la presenza di un elemento distintivo, caratteristico dell'ambiente umano da cui essa nasceva: quell'elemento era la solidarietà[24]. La musica che nel '68 che si identifico' con la canzone politica, fu esprimibile ed accettabile solo come espressione di una condizione di solidarietà umana[25]. Certo, quella solidarietà riguardava chi alla "festa" sentiva di voler partecipare. Ma una volta dentro, una volta diventati cittadini della “Patria Proletaria”, i motivi della critica soggettiva cadevano per lasciare il posto al piacere dell'appropriazione collettiva. E' nel modo di cantare che si rende il senso di allora, dirà Pietrangeli (1991). Non tanto, l'oggetto del canto, quanto il processo del cantare e gli affetti in esso coinvolti erano dunque importanti, quasi a sottolineare - come ha scritto Blacking, - che «l'efficacia funzionale della musica sembra essere più importante, per chi l'ascolta |[ma anche per chi la produce], della sua maggiore o minore complessità di superficie» (Blacking 1986, p.55)[26].
Non è nell'originalità degli oggetti formali, ma nella qualità dei comportamenti umani che la canzone politica produsse la sua "rivoluzione"; non nei prodotti, dunque, ma negli intenti di una società in cui persino la musica «è intesa più come una competizione che come un’esperienza da condividere con altri»(Blacking 1986, p.63).
Oggi la memoria sembra aver cancellato la canzone politica, colpevole di non saper più evocare il senso dell' "allora". Ma questa colpa non è certo imputabile alla povertà formale o a una presunta inadeguatezza rispetto a esigenze linguistiche ormai più raffinate: essa va cercata, piuttosto, nell'impossibilità di far rivivere il matrimonio di fiducia - tanto passionale al suo nascere quanto doloroso al suo morire - tra la musica (luogo dei bisogni esistenziali), e la politica, alla quale quei bisogni furono affidati.
« Il privato è politico», avevano ripetuto i giovani del '68, e al di là delle banali considerazioni di cui questa frase sarebbe stata oggetto, in essa si nascondeva una verità difficilmente confutabile: che la politica, cioè, non dovesse solo farsi carico del benessere economico e materiale delle persone, ma anche - e non secondariamente - del benessere esistenziale degli individui. Che la logica dell’arte entrasse nella politica, si chiedeva in sostanza, e non (come disastrosamente sarebbe sempre più avvenuto) che gli interessi della politica indirizzassero e condizionassero l’arte. Ma la Storia (la stessa che nel '69 avrebbe visto l'uomo addirittura sulla Luna) fu incapace di accogliere istanze tanto "spaventosamente" umane. Così il contenuto propositivo e le motivazioni più intime, che nell'attimo della "festa" si erano illuse di poter albergare nel politico, furono costretti a emigrare, socialmente ed amorevolmente accolti nelle riserve protette dell'esperienza soggettiva[27].
La musica non agisce, semplicemente reagisce alle sollecitazioni della storia. E poiché il tempo della "festa" finì presto, e la storia ordinaria riprese il sopravvento, la canzone politica cessò di essere un comportamento, riducendosi ad un semplice oggetto privato della sua essenza. Come tale essa morì. Sulle sue spoglie, non certo su ciò che era stata da viva, la storia ha decretato il suo scarso valore estetico[28].
« L'arte[29] - ha scritto Starobinski - è senza dubbio più atta a esprimere gli stati della civiltà che non i momenti di rottura violenta» (Starobinski 1981, p.5).
Forse perché «nelle epoche rivoluzionarie […] non solo l'arte, ma anche la vita reale dà spazio alle capacità umane di formazione del mondo»? (Marothy, 1987, p.340)
Il '68, certamente, sfiorò questa utopia.

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* Il saggio qui presentato è pubblicato nella rivista “Daedalus”, numero unico 2004

[1] Come nelle licenziose feste carnascialesche i cui echi sono stati ormai neutralizzati in “azioni festive” dalla cultura occidentale moderna. Presso i Babilonesi, i Giudei, i Romani, i Messicani, veniva infatti distinto «un giorno senza rango e senza nome nel quale si tollera il caos, la sua sregolatezza e i suoi eccessi» ( Durand 1987, p.286).

[2] Tutte le rivoluzioni, infatti, sono propense a introdurre un nuovo calendario.

[3] Comprende, secondo la tesi di Camus, solo la fase della rivolta collettiva, creativa e propositiva, e non le successive fasi anticreative e liberticide della rivoluzione attuata (Camus 1998).

[4] «Ci sono anni, nel corso della storia, che sembrano destinati a fissarsi nella memoria delle generazioni come simboli di un nuovo corso delle vicende umane: in essi si scaricano problemi, tensioni, contraddizioni che, accumulatisi nel tempo, giungono improvvisamente a maturazione ed esplodono con imprevedibile violenza. Tale era stato il "quarantotto" nel XIX secolo, e tale promette ora di essere il “sessantotto”: una sorta di ideale spartiacque tra passato e futuro» (Mack Smith 1977, p.328).

[5] «Si afferma una specie di principio di irrealtà (o, meglio, di scollamento tra aspirazioni indeterminate e realtà)….Una storia immaginaria, fermentante (anche in senso creativo), affianca e spesso sorpassa la “storia reale”». ( Bodei 1998, p.98).

[6] Secondo R.Madera, già nella promulgazione della liceità totale si annidava uno dei motivi della disfatta sessantottina: «“E’ vietato vietare”, scrivevamo sui muri mentre sognavamo quella primavera del mondo che fu l’ultima utopia sconfitta, l’anno di grazia 1968. Non sapevamo di servire cosi’ il grande Moloch, di soccorrere la sua vena più segreta» (Madera 1999, p.66).

[7] L’accompagnamento terzinato sul giro di Do è un esempio tipico di evento sonoro culturalmente interiorizzato come “richiamo” alla canzone italiana degli anni ’60 (Cfr. Stefani, 1982).

[8] Il mito dei favolosi e spensierati anni Sessanta è celebrato da molte canzoni-simbolo di quegli anni. Sapore di sale Di Gino Paoli, ad esempio, presenta un testo descrittivo-panoramico (il sole, il mare, il sale , la spiaggia…) che ritroviamo in molte canzoni dell’epoca (Legata a un granello di sabbia…Tintarella di luna…Nel blu dipinto di blu…ecc.).

[9] Dal motivo dell’incomunicabilità come espressione del rapporto individuo-società di massa (spesso rimosso da una certa mitologia ufficiale, e di cui Antognoni offre un esempio nel cinema) scaturisce la canzone “impegnata” di quegli anni (Cfr. Salvetti 2000).

* Colloquio con Paolo Pietrangeli, che ho avuto Roma il 7 gennaio 1991.

* Colloquio con Fausto Amodei, Torino, 12 gennaio 1991.

[10] Creata sul modello della Frei Universität di Berlino.

[11] «In parte scontenti del paese in cui si trovano a vivere, gli italiani immaginano, senza muoversi dalla loro terra, altre patrie alternative o complementari: in termini mitici, almeno due paradisi terrestri (..l’ “America” e la “Russia) e uno celeste (quello promesso dalla Chiesa cattolica)» (Bodei 1998, p.46).

[12] Ricercatore del Nuovo Canzoniere Italiano.

[13] «Meno nota agli italiani attraverso il cinema o la letteratura contemporanea, meno "visitabile" dagli stranieri (e quindi sostanzialmente sconosciuta, quasi fosse un altro pianeta), l'Unione Sovietica si trasforma in un luogo ancora più mitico degli Stati Uniti» (Bodei 1998, p.50).

[14] Si conferma in tal modo lo “schema progressista” della modalità di pensiero comune a tutti i miti storici «dove prorompe la fiducia nell’esito finale delle peripezie drammatiche del tempo» (Durand 1987, p.284). R. Madera parla di un’ ideologia progressiva della storia (che impregna lo stesso marxismo) secondo la quale «ci sono culture più avanzate e altre più primitive intrappolate in varie ‘proiezioni’, [e] l’avanzare della civiltà è insieme necessario e più ricco di contenuti di verità» (Madera 1999, p.105).

[15] Se da una parte il contenuto dei testi della canzone politica è riducibile a un numero limitato di funzioni(nell’accezione proposta da Propp), dall’altra è comunque evidente che queste funzioni non sono liberamente intercambiabili fra i vari personaggi, la cui identità non è pertanto marginale rispetto alla loro attività. Le azioni “buone”, dunque, possono essere compiute solo da esecutori la cui bontà è già garantita dalla loro collocazione sociale (l’unica inquietante ambivalenza riguarda i crumiri).

[16] Secondo la classificazione di A. Maslow, sono da considerare primari i bisogni di natura fisiologica generalizzabili all'intero universo animale (fame, istinto sessuale, ecc.), e secondari quelli più caratteristici dell'essere umano (di protezione, di stima, di solidarietà, di autorealizzazione ecc.) (Maslow 1973, pp.83-99).

[17] Presentito dai giovani del ’68, quel tipo di malessere oggi allarma gli economisti che finalmente sembrano cercare anche misure alternative al reddito per valutare e promuovere la felicità pubblica. (Cfr. S. Minardi 2003)

[18] Sono blued le note glissate che caratterizzano la scala del blues .

* Dal colloquio con l’ex studente Gabrio Pregnolato, Trento, 29 aprile 1990.

[19]«…Migliaia di militanti se ne impadroniscono, secondo lo schema delle culture di tradizione orale» (Fabbri, Fiori 1989, p.340). Anche Pietrangeli considera la scelta del “popolare” come una conseguenza della sue convinzione politica: «era normale che, avendo fatto certe scelte politiche, poi mi piacesse quella musica…» (Colloquio con P. Pietrangeli, Roma, 7 gennaio 1991).

[20] A questo mancata constatazione può essere imputato il fallimento del tentativo, portato avanti in quegli anni da compositori come Luigi Nono, di creare un nuovo linguaggio musicale per la classe operaia.

[21] Ancora oggi «la costruzione sociale dell’identità dell’artista sembra giocarsi più sul polo dell’individuazione (differenza dagli altri)che su quello della identificazione (uguaglianza con gli altri)”, tenendo fede a una concezione dell’arte come prodotto tutto interno al soggetto che la produce (teoria autoriale), piuttosto che come risultato anche “delle dinamiche sociali che intervengono nella definizione artistica dell’opera in quanto tale (teoria contestuale)». (Tota 1999, p.72].

[22]Sappiamo infatti che «per una tradizione musicale alimentarsi di musica consapevolmente com-posta, cosi’ come è avvenuto nel corso degli ultimi secoli della storia occidentale, costituisce, da un punto di vista etnografico, più l’eccezione che non la regola. Una tradizione puo’ benissimo vivere, evolversi, trasformarsi, lungo un ampio arco di tempo senza bisogno di delegare e concentrare il processo compositivo nelle sole mani di specialisti designati e addomesticati unicamente a quello scopo» ( Sorce Keller 2003).

[23]«La canzone politica fin dagli inizi svolse principalmente una funzione rituale» (Fabbri, Fiori 1989, p.340). Non va dimenticato, d’altra parte, che la musica intesa come fenomeno incentrato esclusivamente sul suono è difficilmente rintracciabile nelle altre culture, dove invece il sonoro «è inestricabilmente connesso con i gesti che lo producono, con le voci che lo cantano […], con le situazioni rituali a cui esso si accompagna» (Baroni 1993 , p.50).

[24] Secondo Tullio-Altan, i valori legati ai bisogni dei giovani del ’68, che riguardavano essenzialmente la sfera psicologia, potevano riassumersi nel principio dell’ autorealizzazione nella solidarietà (Tullio-Altan 1974, p.13). Anche H. Marcuse, non a caso uno degli autori più apprezzati dal movimento studentesco, aveva sostenuto la necessità di risvegliare e organizzare la solidarietà in quanto bisogno biologico di stare uniti contro le brutalità e lo sfruttamento umano.

[25] Infatti «le canzoni erano tanto più riuscite quanto più arrivavano a fungere da simbolo […], e quindi a rinforzare il senso di una comunità, di un’unità d’intenti» (Fabbri, Fiori 1989, p.340).

[26] Anche Zur Lippe scrive che «nelle arti i risultati in quanto tali non hanno alcun rilievo. Si tratta sempre di processi per i quali le “opere” possono assumere funzioni ben precise» ( Zur Lippe 1986, p.33).

[27] Dove sono distribuite «in diverse zone di compensazione consentita (miti, religioni, superstizioni, sogni, opere d'arte) quelle extra-
aganze, quei "deliri" che permettono di accettare il mondo entro i limiti fissati» (Bodei, 2000, p. 24). Anche Jesi conclude che «la festa interiore è l’unica alternativa alla festa crudele che conservi attualità nel rapporto fra l’uomo moderno e il festivo» (Jesi 1977, p.9).

[28] Privilegiando la forma, a discapito della carica simbolica e affettiva che la aveva animata, la critica “seria” della canzone politica si pone in perfetta sintonia con la visione che, secondo Hirsch discende «da quella categoria artistica eminentemente borghese, da quel dogma capitalistico che è la serietà sul lavoro” che ha fatto della musica un ‘impegno” e non più un “diletto”». (Hirsch, p.324.

[29]Qui intesa secondo la moderna ottica occidentale che privilegia la forma sul processo.

 

 

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