Pubblichiamo
un saggio sul '68 a cura della professoressa Nadia Capogreco,
docente presso il Dams dell'Universita' della Calabria. |
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SOGNI
, BISOGNI E UTOPIE NELLA CANZONE POLITICA DEL ‘68* E' senz'altro meglio conoscere questi fenomeni e questi
d’indice l’uno nei confronti ll’altro, anche quando invece di confermarsi essi si contraddicono. JAN STAROBINSKI 1789: I sogni e gli incubi della ragione
Feste e azioni festive
Ci
sono momenti in cui la storia come continuum viene interrotta e il
tempo storico
cede il
posto al tempo mitico. Sono, questi, gli istanti
della festa. E' molto difficile, per l'uomo dei nostri tempi, avere
un'idea precisa di ciò che essa è; la sua essenza, infatti,
risiede in un particolare senso della collettività di cui la
società contemporanea sembra essere orfana.
non disponiamo […] di alcun rapporto storico - che non sia di pura osservazione, e parziale, precaria, dei diversi - con il “senso della festività”, con il “festivo”. Siamo innanzitutto estranei alla qualità collettiva di un “festivo” tale che nel più profondo [di esso] vi sia qualcosa che è più affine alla giocondità che alla malinconia. L'unica festa sui generis che ci rimane accessibile è la “festa crudele” in cui appare, sì, un'esperienza collettiva, ma solo un'esperienza collettiva di violenza e di dolore.
Il
bisogno di festa, la sua urgenza, rimangono tuttavia immutati nell'esperienza
e nella
sensibilità dell'uomo contemporaneo, tanto più che
l'esplosione festiva (collettiva) è implicitamente negata da
un sistema sociale che è strutturalmente antifestivo; esso,
infatti, nel tentativo di incanalare l’inevitabile carica eversiva
della festa, la “depura” della sua vera essenza semplificandola
in "azione festiva". L’azione festiva - che invece
di minacciare la quotidianità la fortifica - coinvolge una modesta
dinamica temporale, un frammento di tempo ordinario in cui si attua
un complesso irrigidito di azioni che vengono compiute in quanto efficaci
promotrici di reputazione, di good fame (Jesi 1977, p.21). Le attuali
azioni festive, dunque, in quanto schegge del quotidiano scorrere degli
eventi non negano il tempo ordinario; semplicemente, lo rallentano
e lo amplificano nel tentativo di eternizzarlo. L’ultima festa Un
nuovo senso della collettività, l’emergenza di nuovi
valori culturali, la volontà di liberarsi dall'oppressione sociale,
l'onnipotenza di chi ritiene di poter attuare un ricominciamento della
storia, sono elementi che concorrono, tutti, a definire il clima dell'ultima
festa, ovvero dell'ultimo evento che, al pari della grande rivoluzione
del 1789, assume a pieno titolo il diritto di imprimersi nel calendario
dell'uomo occidentale.
…È stato anzitutto un ghirigoro della fantasia, un innamoramento collettivo, una transe. Transe, certo, come dire il trans-ire da un ordine sociale vissuto con disagio, alla catarsi di un disordine festoso; da un'omologazione frustrante, ad una deomologazione multiversa e creativa: […] uno stato di comunicazione esplosa, molto simile a una festa dionisiaca; un attraversamento del "meraviglioso" che tutto e tutti coinvolse e sconvolse (Curcio 1988).
Il '68, in Italia, rappresentò l’esplosione di grandi contraddizioni sociali, fra le quali una scuola di massa autoritaria e selettiva, una società civile e una composizione di classe segnate profondamente dalla riconversione industriale.
Gli studenti scendono in piazza, occupano università, alzano barricate. Molti valori tradizionali vanno in frantumi. Per un attimo, durante il maggio francese, il ’68 sembra l’anno della rivoluzione. Molte cose avvengono in quei dodici mesi e molte cose cambiano. In tutto il mondo quell’anno incredibile è sinonimo di violenze e proteste, ma anche di novità e speranza. Esplodono insieme contraddizioni e bottiglie molotov (Scialoja 1990).
Da quelle contraddizioni si librarono le espressioni creative e antiautoritarie che caratterizzarono fortemente la lotta degli studenti, cosicché il panorama del '68 divenne subito emblematico di un bisogno vasto, collettivo, di risposte non istituzionali e non strutturali a una domanda di maggiore libertà. Un processo sicuramente utopico, nella misura in cui le richieste non stavano tanto nell'esigenza di soddisfazione di bisogni immediati, quanto nel tentativo di soddisfare bisogni ultimi: l'immaginazione al potere, il desiderio come principio attivo (società "desiderante"), l'antiautoritarismo come negazione del principio di autorità[5].
Il
nostro '68 fu un delitto. Un delitto nel senso letterale del termine,
ovvero “sottrarsi al dovere”.
Addentrarsi nelle scelte e nel conflitto sociale scaturiti dal '68 potrebbe forse servire a spiegare i successi e i fallimenti di quanto sarebbe avvenuto dopo; ciò che qui interessa, tuttavia, è ritrovare il momento unificante iniziale in cui le contraddizioni esplosero come una festa e l'evento prese la portata del mito, venendo così ricordato.
La musica della festa
Una
lettura del '68 (nelle caratteristiche che il movimento studentesco
assunse
in Italia), attraverso le sue espressioni musicali, ha posto
inevitabilmente la questione fondamentale: ci fu una musica che, specificamente,
espresse il '68? Per rispondere a ciò si è pensato, in
una prima fase, di identificare ed analizzare le varie forme di espressione
musicale rintracciabili in quell'anno fatidico. Così facendo,
però, si rischiava di ridurre l'evento '68 all'anno 1968, momento
di scansione cronologica di un decennio che, nella memoria dell'oggi,
si identifica musicalmente nel sound tipico che caratterizza l'intero
corso degli anni '60[7]. L'esigenza, quindi, è stata quella
di isolare l'elemento musicale specifico che aveva caratterizzato l'attimo
della "festa"( in particolare l’occupazione delle università),
ricorrendo ai ricordi di chi ha vissuto l'evento. Si è così rilevato
un processo di separazione ideale che ha collocato la musica del '68
in un categoria ben differenziata rispetto a quella degli anni '60;
una separazione operata da una memoria che ha caratterizzato-mitizzato
gli anni '60 in quanto momento di evasione[8], contrapponendoli al
'68 che appare, invece, come l'anno dell'impegno[9].
Contessa
Compagni dai campi
Sono in molti quelli che già al grido di attacco del famoso ritornello di Contessa si sentono proiettati nel cuore delle lotte studentesche.
Scendete
giù in
piazza
Il
testo, tuttavia, induce immediatamente a qualche perplessità.
Dai primi versi ciò che appare evidente è che si tratti
di un canto operaio; l'invito, infatti, è più che mai
esplicito, e con esso i destinatari: contadini e operai. Ma il '68 è l'anno
degli studenti e la contestazione scoppia all'interno delle università.
Non è un caso, quindi, che l'autore della canzone sia proprio
uno studente, Paolo Pietrangeli, iscritto, nel '68, alla facoltà di
lettere dell'università di Roma. «Contessa – ci
racconterà lo stesso Pietrangeli - non è stata composta
nel '68 ma due anni prima. Stando dentro al movimento, uno riesce a
sentire certi umori prima di quando, poi, essi non vengono e non si
palesano in maniera ufficiale…».(Pietrangeli 1991)
la classe operaia evocata nel ritornello di Contessa non è tanto la classe operaia storica quanto la classe operaia simbolica. Si riversa nelle strade stringendo in mano, appunto, i simboli della sua tradizione, la falce e il martello. [D'altra parte] un simbolo non è meno reale di un fatto, quindi […] gli operai di Contessa [non] sono irreali e falsi. Sono realissimi: sono gli operai come li vedevamo noi [studenti], il richiamo ideale e simbolico che la classe operaia costituiva per i comunisti del '68 e dintorni (Portelli 1976, p.156).
Nel simbolo - come ha evidenziato Ricoeur – un senso diretto, primario, letterale, designa per sovrappiù un altro senso indiretto, secondario, figurato (Ricoeur 1977, p.26). La classe operaia cantata dalla canzone del '68, dunque, necessita di non essere sclerotizzata nel suo significante letterale. Essa sta anche per altro. C'è da pensare, tuttavia, che essa stesse essenzialmente per altro, dato che - come nota Portelli - «pochissime delle nuove canzoni di lotta sono entrate a far parte del repertorio degli operai: anche quando l'argomento erano gli operai [infatti], le canzoni non parlavano di loro ma di noi [studenti]…» (Portelli 1976, pp. 158-159).
La Patria Proletaria
Nel marzo 1968, Marco Boato - allora studente nella facoltà di sociologia dell'università di Trento - così spiegava le intenzioni del movimento:
Credo che si debbano distinguere due fasi:…[una prima]… in cui si accentuerà l'impegno sui problemi per allargare la base sociale, per recuperare a livello di massa il movimento studentesco. … Una seconda…, sul piano politico, che sarà la logica conseguenza del discorso sulla contestazione globale e sulla strategia rivoluzionaria del movimento, che sarà in allargamento al di fuori dell'università e quindi anche porrà il problema dell'allargamento con le altre forze sociali e con le altre forze politiche, principalmente col movimento operaio"(Boato 1968).
Il movimento studentesco, dunque, decide di allargarsi, di farsi politico, e di legarsi ad una classe non sua della quale, comunque, si costituisce come avanguardia intellettuale. Esso "adotta" il proletariato e si impegna a guidarlo nella fase di passaggio che lo condurrà alla guida della società e alla creazione di una cultura autonoma. Il movimento degli operai verrà sostenuto nella fase di transizione, fino a che i germi della cultura della loro classe avranno peso, storia e autorevolezza sufficienti. Ciò spiega perché la canzone politica non è espressione diretta ma mediata del movimento reale e delle sue lotte: la ragione fondante risiede proprio in questa mediazione, che richiede la figura dell'intellettuale (il cantante-autore) e che fa di essa una canzone sul movimento e non […] del movimento-autore (Dessì-Pintor 1976, p.15).I giovani intellettuali del ’68, dunque, facevano propria la tradizione popolare-proletaria. Ma cosa li spingeva realmente verso questa scelta?Una risposta può venire dalla testimonianza di Roberto Leydi, secondo il quale questo atteggiamento aveva cominciato a diffondersi già all'interno della sua generazione (la gioventù dell’immediato dopoguerra), che aveva notoriamente mitizzato l’America e, con essa, il jazz:
Che cosa era questa America per noi? Era la disperata ricerca di una patria da parte di una generazione senza patria. Non potevamo riconoscerci nell'Italia di Vittorio Emanuele II o di Cavour, di Crespi o di Leonardo da Vinci. Avevamo bisogno di una patria popolare , e il jazz era questo: una patria popolare. Cioè era l'esigenza di riconoscerci dentro a un mondo di lavoratori, di operai di fabbrica o contadini. Ciò avveniva intellettualisticamente, perché in realtà ignoravamo che questo mondo esistesse anche qui. Il mio passaggio all'interesse per il mondo popolare si verifica quando ho cominciato a rendermi conto che questa patria americana era un'astrazione e che era possibile trovarla qui.(Bermani 1978, p.9)
La
patria popolare come patria ideale, dunque, mitico luogo di identificazione
affettiva e storico-culturale per una generazione che soffriva di crisi
d'identità[11].
Ma torniamo all’interessante racconto di R. Leydi:
La mia coscienza politica era 'istintivo-retorica', mitologica, cosmopolita, tipicamente radical-borghese, anche se colorata di rosso. Nella vicinanza di Gianni Bosio[12] quello che era un fatto astratto e mitologico diventa un fatto concreto, è l'acquisizione che la Rivoluzione d'Ottobre c'è stata davvero.(Bermani 1978, p.9)
E' facile, dietro queste parole, avvertire un’ulteriore sostituzione ideale e affettiva: dalla patria americana alla patria sovietica, la cui presenza "reale" è acquisita attraverso gli echi (dunque attraverso le mediazioni simboliche) che di essa giungono nella sinistra italiana[13]. Il mondo operaio, erede della grande rivoluzione sovietica e cinese, diventa così la "patria ideale" per cui combattere la guerra delle guerre, la guerra finale, che preluderà alla giustizia e alla totale pacificazione sociale[14].
Nessuno
più al
mondo
ammonisce-tranquillizza Pietrangeli nell’ultimo verso che conclude il ritornello di Contessa, tenendo così fede ad una delle caratteristiche più tipiche dell'innologia operaia che incita all'odio contro i ricchi ma che reclama, nel mondo pacificato, uguali diritti per tutti.
Un meta-testo
Cosa
cantavano i testi della canzone politica? Dall'estrema ridondanza
delle situazioni
proposte, sembra quasi che essi avessero la proprietà di
attribuire azioni (funzioni) identiche a personaggi diversi e che fossero
proprio le azioni gli elementi costanti su cui essi si fondavano (Propp
1972). Sulla base delle funzioni svolte dai personaggi è infatti
possibile individuare una sorta di "metatesto" la cui apparente
eterogeneità, per le situazioni e i temi trattati, è generalmente
contestualizzabile nell’ambito di uno scenario spazio-temporale
ben preciso: la piazza, la fabbrica, il cantiere, il palazzo, lo sciopero,
l'occupazione, il corteo…; negli istanti, comunque, che preludono
alla Rivoluzione.
l'amore che riesce a sentire
si ama il proprio partner perché è capace di infondere
il coraggio
E
così, in O cara moglie (I. Della Mea), la famiglia è il
luogo in cui il “combattente”, stanco, scarica la rabbia
per la sconfitta ma rinvigorisce la sua volontà di continuare
la lotta.
la classe operaia …non poteva muoversi in base alle medesime motivazioni che erano quelle dei giovani borghesi delle scuole e delle università. Non esisteva, se non nell'immaginazione, un'unica coscienza di classe fra i due gruppi, degli studenti e degli operai, divisi fra loro da un vero e proprio gap culturale (Tullio-Altan 1974, p.107).
Ancora
di più, dunque, si può sostenere che nei testi
di quelle canzoni regole e parole servissero «a costruire immagini
e azioni che rappresentano, a un tempo, significati normali in relazione
ai significati del discorso, ed elementi di significazione in relazione
ad un sistema significativo supplementare, che si situa su un altro
piano» (Lévi-Strauss 1978, p.183).
le vicende dei movimenti giovanili di contestazione nelle società industriali…ci pongono di fronte a tutta la complessità di questo problema, che non pare più risolubile nel quadro di una concezione schematica e tradizionale dei conflitti di classe o di generazione, ma richiede di essere collocata in un quadro molto più ampio, che tenga conto delle conseguenze sociali e culturali della nuova rivoluzione industriale (Tullio-Altan 1974, p.13).
Abbandonata,
perciò, l'indagine all'interno di ciò che
superficialmente è leggibile nei testi delle canzoni, cerchiamo
di indirizzare la nostra attenzione verso il campo dei bisogni e dei
valori che alimentavano il movimento studentesco. Ci accorgiamo che
la convergenza di intenti fra studenti e operai risulta impossibile
per un divario generazionale che non è tanto anagrafico quanto
socio-culturale: mosso da bisogni secondari[16], il movimento studentesco
vede più in avanti; i suoi sono i bisogni della "seconda
generazione", sono cioè istanze e aspirazioni rese possibili
proprio dall'enorme grado di espansione del sistema produttivo.
Dalle misurazioni condotte con le nostre scale abbiamo potuto scoprire qualcosa di più in questo senso: i nuovi valori debbono orientarsi verso una socialità più autentica e personalizzata, e portare all'accettazione positiva dell'alterità, in luogo del sistematico rifiuto o strumentalizzazione di essa, che ha certamente caratterizzato la cultura "latente", ma non per questo meno attiva, caratteristica del sistema capitalistico euro-americano (Tullio-Altan, 1974, p.81).
E' dunque plausibile che i giovani del '68, in quanto appartenenti alla classe agiata, almeno «temporaneamente immuni dal senso di insicurezza economica e, nello stesso tempo, aperti alle sollecitazioni e alle informazioni che giungevano loro attraverso i canali della scuola, e soprattutto dalla controcultura giovanile»(Tullio-Altan 1974, p.81), non odiassero i padroni perché la busta-paga degli operai era bassa, ma perché li ritenevano responsabili di quel disagio esistenziale e di quel malessere diffuso che essi, nonostante fossero i figli della classe agiata ufficialmente detentrice della "felicità", avvertivano in modo sempre più insopportabile[17]. Così, la vera lotta non era tra operai e padroni, ma tra figli e padri borghesi. Il "padrone" della canzone politica è il padre-padrone che ha ucciso i valori della socialità e dell'accettazione positiva dell'alterità…è il padre che ha alienato la sua umanità, ma anche quella dei suoi figli, in nome del profitto e del guadagno. Alla società dei padri i giovani
avanzano una serie di richieste politiche e sociali attinenti alle libertà civili, di contro alle condizioni di alienazione indotte da un sistema sociale nel quale il principio del profitto monetario costituisce il massimo valore sociale di riferimento (Tullio-Altan 1976, p.13).
I
padri, però, non vogliono o non possono più ascoltare. Caro padrone, domani ti sparo…canta ironicamente ma anche rabbiosamente Paolo Pietrangeli. Solo qualche anno prima, Ivan Della Mea (in La grande e la piccola violenza) aveva cantato:
Ieri
mio padre è morto
Una carcassa vuota
Reazione o rivoluzione?
«E' perlomeno curioso», hanno affermato Fabbri e Fiori,
che la forma che si pregia del titolo di "politica", che la forma d'arte rivoluzionaria espressa da un movimento di giovani operai e studenti, proiettandosi verso il futuro si ritrovi in pieno medioevo; perché sì, dobbiamo dirlo a costo di essere fraintesi e banalizzati: la canzone politica manca soprattutto di modernità (Fabbri, Fiori 1989, p.341).
Certo,
sul piano formale la canzone politica non ha apportato alcuna innovazione
al linguaggio musicale tradizionale; sembra, anzi, averlo
accettato in modo passivo. Nessuna nota blue[18]…nessuno spostamento
specifico degli accenti ritmici essa può vantare. Non sembra
arrivare, insomma, a soluzioni musicali tali da poter connotare, stilisticamente,
un genere.
Quando hai un contatto con la realtà sociale, con un operaio delle fabbriche che vive in un quartiere, che ha una moglie, che ha dei bambini, tu non puoi far sentire i Deep Purple…e allora bisogna trovare un mezzo di comunicazione … La canzone politica di quegli anni faceva proprio questo. Io, infatti, in quegli anni ho mollato tutto il beat per la canzone politica…(Pregnolato 1990*).
La
canzone del ’68, dunque, decise di essere "usufruibile" dalla
classe sociale a cui sentiva di essere destinata; volendo rivolgersi
alle masse, si vestì degli abiti popolari[19] e scelse di non
attaccare i principi del linguaggio musicale dominante perché,
oltre agli oppressori, in esso si identificavano affettivamente e culturalmente
anche gli oppressi[20].
non erano soltanto patrimonio comune; [già] nel momento i cui si facevano c’era proprio il piacere di farle sentire anche ad un piccolo gruppo di amici, di persone con cui ci si riuniva…(Pietrangeli 1991).
Sin
dalla nascita esse ambivano ad essere collettive, rifiutando in
tal modo
il mito romantico-borghese dell’individualità creatrice[21].
Questa scelta, coerentemente con la politica del movimento, le inseriva
a pieno titolo non solo nella tradizione del canto popolare nostrano,
ma anche nella più grande tradizione della musica extra-europea,
caratterizzata dalla mancanza di una casta di specialisti ufficialmente
delegata dalla collettività e addestrata a comporre la “vera” musica[22]. Se
la musica – come ha sostenuto Blacking - non ha il potere
di trasformare la società, ma di confermare delle situazioni
già esistenti (Blacking 1986, p.73), dai comportamenti della
canzone del '68 sembra che si possa leggere la presenza di un elemento
distintivo, caratteristico dell'ambiente umano da cui essa nasceva:
quell'elemento era la solidarietà[24]. La musica che nel '68
che si identifico' con la canzone politica, fu esprimibile ed accettabile
solo come espressione di una condizione di solidarietà umana[25].
Certo, quella solidarietà riguardava chi alla "festa" sentiva
di voler partecipare. Ma una volta dentro, una volta diventati cittadini
della “Patria Proletaria”, i motivi della critica soggettiva
cadevano per lasciare il posto al piacere dell'appropriazione collettiva.
E' nel modo di cantare che si rende il senso di allora, dirà Pietrangeli
(1991). Non tanto, l'oggetto del canto, quanto il processo del cantare
e gli affetti in esso coinvolti erano dunque importanti, quasi a sottolineare
- come ha scritto Blacking, - che «l'efficacia funzionale della
musica sembra essere più importante, per chi l'ascolta |[ma
anche per chi la produce], della sua maggiore o minore complessità di
superficie» (Blacking 1986, p.55)[26]. -------------------------------------------------------------------------------- * Il saggio qui presentato è pubblicato nella rivista “Daedalus”, numero unico 2004 [1] Come nelle licenziose feste carnascialesche i cui echi sono stati ormai neutralizzati in “azioni festive” dalla cultura occidentale moderna. Presso i Babilonesi, i Giudei, i Romani, i Messicani, veniva infatti distinto «un giorno senza rango e senza nome nel quale si tollera il caos, la sua sregolatezza e i suoi eccessi» ( Durand 1987, p.286). [2] Tutte le rivoluzioni, infatti, sono propense a introdurre un nuovo calendario. [3] Comprende, secondo la tesi di Camus, solo la fase della rivolta collettiva, creativa e propositiva, e non le successive fasi anticreative e liberticide della rivoluzione attuata (Camus 1998). [4] «Ci sono anni, nel corso della storia, che sembrano destinati a fissarsi nella memoria delle generazioni come simboli di un nuovo corso delle vicende umane: in essi si scaricano problemi, tensioni, contraddizioni che, accumulatisi nel tempo, giungono improvvisamente a maturazione ed esplodono con imprevedibile violenza. Tale era stato il "quarantotto" nel XIX secolo, e tale promette ora di essere il “sessantotto”: una sorta di ideale spartiacque tra passato e futuro» (Mack Smith 1977, p.328). [5] «Si afferma una specie di principio di irrealtà (o, meglio, di scollamento tra aspirazioni indeterminate e realtà)….Una storia immaginaria, fermentante (anche in senso creativo), affianca e spesso sorpassa la “storia reale”». ( Bodei 1998, p.98). [6] Secondo R.Madera, già nella promulgazione della liceità totale si annidava uno dei motivi della disfatta sessantottina: «“E’ vietato vietare”, scrivevamo sui muri mentre sognavamo quella primavera del mondo che fu l’ultima utopia sconfitta, l’anno di grazia 1968. Non sapevamo di servire cosi’ il grande Moloch, di soccorrere la sua vena più segreta» (Madera 1999, p.66). [7] L’accompagnamento terzinato sul giro di Do è un esempio tipico di evento sonoro culturalmente interiorizzato come “richiamo” alla canzone italiana degli anni ’60 (Cfr. Stefani, 1982). [8] Il mito dei favolosi e spensierati anni Sessanta è celebrato da molte canzoni-simbolo di quegli anni. Sapore di sale Di Gino Paoli, ad esempio, presenta un testo descrittivo-panoramico (il sole, il mare, il sale , la spiaggia…) che ritroviamo in molte canzoni dell’epoca (Legata a un granello di sabbia…Tintarella di luna…Nel blu dipinto di blu…ecc.). [9] Dal motivo dell’incomunicabilità come espressione del rapporto individuo-società di massa (spesso rimosso da una certa mitologia ufficiale, e di cui Antognoni offre un esempio nel cinema) scaturisce la canzone “impegnata” di quegli anni (Cfr. Salvetti 2000). * Colloquio con Paolo Pietrangeli, che ho avuto Roma il 7 gennaio 1991. * Colloquio con Fausto Amodei, Torino, 12 gennaio 1991. [10] Creata sul modello della Frei Universität di Berlino. [11] «In parte scontenti del paese in cui si trovano a vivere, gli italiani immaginano, senza muoversi dalla loro terra, altre patrie alternative o complementari: in termini mitici, almeno due paradisi terrestri (..l’ “America” e la “Russia) e uno celeste (quello promesso dalla Chiesa cattolica)» (Bodei 1998, p.46). [12] Ricercatore del Nuovo Canzoniere Italiano. [13] «Meno nota agli italiani attraverso il cinema o la letteratura contemporanea, meno "visitabile" dagli stranieri (e quindi sostanzialmente sconosciuta, quasi fosse un altro pianeta), l'Unione Sovietica si trasforma in un luogo ancora più mitico degli Stati Uniti» (Bodei 1998, p.50). [14] Si conferma in tal modo lo “schema progressista” della modalità di pensiero comune a tutti i miti storici «dove prorompe la fiducia nell’esito finale delle peripezie drammatiche del tempo» (Durand 1987, p.284). R. Madera parla di un’ ideologia progressiva della storia (che impregna lo stesso marxismo) secondo la quale «ci sono culture più avanzate e altre più primitive intrappolate in varie ‘proiezioni’, [e] l’avanzare della civiltà è insieme necessario e più ricco di contenuti di verità» (Madera 1999, p.105).
[15] Se da una parte il contenuto dei testi della canzone politica è riducibile a un numero limitato di funzioni(nell’accezione proposta da Propp), dall’altra è comunque evidente che queste funzioni non sono liberamente intercambiabili fra i vari personaggi, la cui identità non è pertanto marginale rispetto alla loro attività. Le azioni “buone”, dunque, possono essere compiute solo da esecutori la cui bontà è già garantita dalla loro collocazione sociale (l’unica inquietante ambivalenza riguarda i crumiri). [16] Secondo la classificazione di A. Maslow, sono da considerare primari i bisogni di natura fisiologica generalizzabili all'intero universo animale (fame, istinto sessuale, ecc.), e secondari quelli più caratteristici dell'essere umano (di protezione, di stima, di solidarietà, di autorealizzazione ecc.) (Maslow 1973, pp.83-99). [17] Presentito dai giovani del ’68, quel tipo di malessere oggi allarma gli economisti che finalmente sembrano cercare anche misure alternative al reddito per valutare e promuovere la felicità pubblica. (Cfr. S. Minardi 2003) [18] Sono blued le note glissate che caratterizzano la scala del blues . * Dal colloquio con l’ex studente Gabrio Pregnolato, Trento, 29 aprile 1990. [19]«…Migliaia di militanti se ne impadroniscono, secondo lo schema delle culture di tradizione orale» (Fabbri, Fiori 1989, p.340). Anche Pietrangeli considera la scelta del “popolare” come una conseguenza della sue convinzione politica: «era normale che, avendo fatto certe scelte politiche, poi mi piacesse quella musica…» (Colloquio con P. Pietrangeli, Roma, 7 gennaio 1991). [20] A questo mancata constatazione può essere imputato il fallimento del tentativo, portato avanti in quegli anni da compositori come Luigi Nono, di creare un nuovo linguaggio musicale per la classe operaia. [21] Ancora oggi «la costruzione sociale dell’identità dell’artista sembra giocarsi più sul polo dell’individuazione (differenza dagli altri)che su quello della identificazione (uguaglianza con gli altri)”, tenendo fede a una concezione dell’arte come prodotto tutto interno al soggetto che la produce (teoria autoriale), piuttosto che come risultato anche “delle dinamiche sociali che intervengono nella definizione artistica dell’opera in quanto tale (teoria contestuale)». (Tota 1999, p.72]. [22]Sappiamo infatti che «per una tradizione musicale alimentarsi di musica consapevolmente com-posta, cosi’ come è avvenuto nel corso degli ultimi secoli della storia occidentale, costituisce, da un punto di vista etnografico, più l’eccezione che non la regola. Una tradizione puo’ benissimo vivere, evolversi, trasformarsi, lungo un ampio arco di tempo senza bisogno di delegare e concentrare il processo compositivo nelle sole mani di specialisti designati e addomesticati unicamente a quello scopo» ( Sorce Keller 2003). [23]«La canzone politica fin dagli inizi svolse principalmente una funzione rituale» (Fabbri, Fiori 1989, p.340). Non va dimenticato, d’altra parte, che la musica intesa come fenomeno incentrato esclusivamente sul suono è difficilmente rintracciabile nelle altre culture, dove invece il sonoro «è inestricabilmente connesso con i gesti che lo producono, con le voci che lo cantano […], con le situazioni rituali a cui esso si accompagna» (Baroni 1993 , p.50). [24] Secondo Tullio-Altan, i valori legati ai bisogni dei giovani del ’68, che riguardavano essenzialmente la sfera psicologia, potevano riassumersi nel principio dell’ autorealizzazione nella solidarietà (Tullio-Altan 1974, p.13). Anche H. Marcuse, non a caso uno degli autori più apprezzati dal movimento studentesco, aveva sostenuto la necessità di risvegliare e organizzare la solidarietà in quanto bisogno biologico di stare uniti contro le brutalità e lo sfruttamento umano. [25] Infatti «le canzoni erano tanto più riuscite quanto più arrivavano a fungere da simbolo […], e quindi a rinforzare il senso di una comunità, di un’unità d’intenti» (Fabbri, Fiori 1989, p.340). [26] Anche Zur Lippe scrive che «nelle arti i risultati in quanto tali non hanno alcun rilievo. Si tratta sempre di processi per i quali le “opere” possono assumere funzioni ben precise» ( Zur Lippe 1986, p.33). [27]
Dove sono distribuite «in diverse zone di compensazione
consentita (miti, religioni, superstizioni, sogni, opere d'arte) quelle
extra- [28] Privilegiando la forma, a discapito della carica simbolica e affettiva che la aveva animata, la critica “seria” della canzone politica si pone in perfetta sintonia con la visione che, secondo Hirsch discende «da quella categoria artistica eminentemente borghese, da quel dogma capitalistico che è la serietà sul lavoro” che ha fatto della musica un ‘impegno” e non più un “diletto”». (Hirsch, p.324. [29]Qui intesa secondo la moderna ottica occidentale che privilegia la forma sul processo.
Bibliografia
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Baroni, M. (1994) Didattica della musica e musicologia sistematica, in G. Grazioso (a cura di) L’educazione musicale tra passato, presente e futuro, Ricordi, Milano
Baroni, M.-Dalmonte, R.-Jacoboni,C. (1999) Le regole della musica. Indagine sui meccanismi della comunicazione, EDT, Torino
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