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Gli
inizi di ogni capitolo, che nell’indice vestono
il romanzo a mo’ di enciclica rappresentano una
sorta di “continuazione di discorso interrotto”.
Originale come scelta, perché crea suspence,
tenendo col fiato sospeso il lettore.
Quei
capitoli formalmente non titolati, ma, di fatto, scansionati,
danno segno di come il lavoro è stato realizzato
dall’autore. Io immagino, perché non l’ho
mai chiesto a Gaetano, che lui abbia collezionato una
serie di appunti commentati. In qualche modo, ha spulciato
nel suo diario i pezzi più significativi della
sua vita, li ha colorati magistralmente con la parola,
vi ha dato anima attraverso passioni, sentimenti, recriminazioni,
delusioni, vittorie e sconfitte e ha montato le scene
principali, senza trascurare i sottofondi e le quinte,
che non sono secondari nell’economia complessiva
del racconto.
Su
questa specie di palcoscenico di una vita ha chiamato
ad esibirsi attori e comparse lasciando, in ultima analisi,
al lettore, alla sensibilità di chi legge, la
scelta di scoprire le parti, il ruolo e il peso che
i vari personaggi hanno avuto in questo percorso autobiografico.
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L’autore,
infatti, anche se mette a nudo il suo vissuto, non opera scelte,
non seleziona e non cinge di aureola i suoi protagonisti in
base all’importanza che ricoprono nella storia di una
vita intensa qual è quella di Ulisse. A prima vista,
il lettore corre il rischio di attribuire ad Ulisse la parte
del protagonista.
Ulisse
non è il protagonista, sono le sue storie, le avventure,
il messaggio che ne viene fuori che assurgono ad un ruolo
di protagonismo. Anzi, dopo attenta riflessione, direi che
nel romanzo esiste un protagonista di facciata che è
Ulisse, ma dentro ogni storia c’è un protagonista
che assegna, di fatto, ad Ulisse il ruolo di comprimario.
In
tutto il romanzo esiste un filo sottile di nostalgia. Il lettore
attento non si faccia sviare dalla cronaca del racconto. Tutto
quello che viene raccontato è nostalgia di un vissuto.
Nostalgia con quello che ne consegue. Nostalgia nel significato
etimologico della parola (Nostos = ritorno e Algos = sofferenza).
Una nostalgia che procura al suo autore piacevolezza nel ricordo,
ma si tratta, pur sempre, di un ritorno di sofferenza.
Ma
è una sofferenza che appartiene all’uomo Ulisse
e, come tutte le appartenenze, costituiscono il bagaglio dell’esistenza.
Man
mano che ci si addentra nella lettura de “Lo sguardo
del lupo” il lettore si accorgerà di trovarsi
dinanzi ad una di quelle vecchie scatole in cui le nonne riponevano
periodicamente alcune rimanenze che all’occorrenza risultavano
utili. E così si è mosso Gaetano Tarsitani.
Quando ha deciso di scrivere, ha sollevato il coperchio della
sua vita e si è trovato in mano tanti piccoli intagli
che, con abilità d’artista di lungo corso, ha
saputo comporre e ne è venuto fuori un mosaico romanzato
dalle linee e dai contorni ben definiti.
Questa
scatola è il tesoro dell’autore. Qualcosa di
prezioso che Gaetano ha gelosamente custodito per anni e che
recupera solo raccontandolo. Credo sia, anche questa, una
chiave di lettura del romanzo: la voglia di raccontare.
Mentre
rileggevo “Lo sguardo del lupo” ero alle prese
con la lettura di un altro bellissimo libro: “L’ignoranza”,
di Milan Kundera e pura coincidenza nel racconto dello scrittore
boemo c’è un chiaro riferimento al personaggio
omerico di Ulisse. Con un’interpretazione magistrale,
che tento di accostare al personaggio creato da Tarsitani,
lo scrittore boemo analizza le traversie di Ulisse parlando
in questi termini: “Per vent’anni Ulisse non aveva
pensato che al ritorno. Ma quando fu di nuovo a casa capì
con stupore che la sua vita, l’essenza stessa della
sua vita, il suo centro, il suo tesoro, si trovava fuori da
Itaca, in quei vent’anni di vagabondaggio. E quel tesoro
l’aveva perduto e l’avrebbe recuperato solo raccontandolo”.
Penso
che altrettanto si possa dire del personaggio de “Lo
sguardo del lupo”. La vera grandezza di Ulisse, del
personaggio caro a Tarsitani, sta in questo eterno vagabondare.
Se il prossimo libro di Gaetano ci dovesse consegnare un personaggio
appagato, solo custode di ricordi, verrebbe meno lo stesso
fascino che accompagna “Lo sguardo del lupo” e
il suo autore.
L’autore
ha dimostrato, in queste pagine di essere un profondo conoscitore
degli intricati percorsi psicologici dell’essere umano
e nel contempo ha evidenziato un’assoluta padronanza
delle parole, creando magiche alchimie emozionali.
Ciò
che innanzi tutto mi è saltato all’occhio, per
così dire, leggendo il libro sono stati la forma e
lo stile. Notevole, poi, il ritmo narrativo, che varia in
un susseguirsi di velocità diverse e correlate al passo
delle azioni descritte. Così, il lavoro coglie il movimento,
il flusso della vita, la labilità del piacere, della
tristezza, del dolore, e ferma gli istanti per per restituirne
le emozioni.
Infine
il libro si può proporre con un duplice livello di
lettura. Al lettore per così dire più ingenuo
esso scorre davanti scenicamente, mostrando l’aspetto
e i discorsi dei personaggi in una serie di occasioni prescelte.
Il lettore più attento, invece, noterà subito
che l’enfasi del libro ricade sui cambiamenti della
mente, del carattere del protagonista; nell’animo del
quale risiede la parte più espressiva, più illuminante
della storia.
Le
linee generali del libro sono impressioni dipinte, non azioni,
e i fatti esteriori della storia sono il trattamento di superficie,
che ha il compito di produrre l’effetto finale.
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