Il barone di Montebello (e la strage degli Alberti di Pentidattilo)
di Alessandro Cavallaro
Presentazione di Gustavo Cannizzaro

 
           

 

 

 

 

 

 

 

 



   

Resoconto sulla presentazione del libro di Alessandro Cavallaro
"Il barone di Montebello (e la strage degli Alberti di Pentidattilo)"

Presentazione di Gustavo Cannizzaro

Sabato cinque ottobre 2002 nel salone dell'Hotel Castelvetere in Caulonia Marina si è tenuta la presentazione dell'ultima "fatica" di Sandro Cavallaro. Ha fatto da "patron" il dott. Domenico Laruffa, il titolare della Casa Editrice omonima, che ha curato la pubblicazione dell'opera, arricchendola con i disegni di Daniela Serranò. Dopo un breve saluto del dott. Domenico Lia, sindaco di Caulonia, ha preso la parola il sindaco di Roccella, senatore Sisinio Zito, che è entrato in merito, evidenziando le caratteristiche del libro in esame: libro che è stato letto d'un fiato e ciò la dice lunga sulla sua qualità. Infatti, sempre secondo il senatore Zito, quando le pagine sono capaci di avvincere, di tenere il fiato sospeso del lettore, è evidente
che l'autore ha saputo centrare il bersaglio. L'intervento di Zito ha messo in evidenza le peculiarità del romanzo storico e, a tal proposito, ha ricordato come i vari capitoli possano entrare di diritto all'interno dei più illustri saggi di Storia sulla Calabria, poiché tanto precisi sono i riferimenti alla società calabrese del '600. "Amour fou", come dicono i francesi, è quello che stringe Bernardino Abenavoli ad Antonia degli Alberti e ciò spinge il romanzo verso il "feuilleton", rendendolo più popolare e più caro ad ogni lettore. Infine, con tono volutamente flemmatico e non privo di una certa enfasi ha iniziato a relazionare il prof. Pasquino Crupi, pro-rettore dell'Università per stranieri della Calabria e noto critico letterario calabrese. Lo studioso reggino, dopo avere evidenziato come il libro manchi di una vera prefazione, cosa che ne costituisce un merito, poiché spesso le stesse portano il lettore su strade che non aiutano a comprendere meglio un lavoro, si è riallacciato a quanto prima è stato esposto dal senatore Zito, sulle qualità del romanzo storico del libro di Alessandro Cavallaro, anche se di un romanzo storico anomalo.
Il romanzo "Il barone di Montebello e la strage degli Alberti di Pentidattilo" trova i suoi lontani illustri precedenti nelle pagine di W. Scott e di A. Manzoni, ma la sua anomalia (dopo quella stessa del titolo, che si adatterebbe maggiormente ad un saggio) fa sì che l'opera sia legata, comunque, alla società attuale, che è quella del terzo millennio. E moderno appare quell'uso del flashback, posto all'inizio del racconto per avviarne la trama. Mai un romanzo storico si è fatto iniziare con la sua fine; anomalo e moderno è quel modo di raccontare la storia in cui si sviluppa tutta la vicenda, perché, sostiene il relatore, i grandi romanzieri dell''800 facevano trasparire l'aria della storia dalle parole dei singoli personaggi, mentre in Cavallaro essi rimangono a se stanti e tutti presi nei loro risvolti di
natura psicologica, anche se ciò non deve far pensare a Pirandello, perché il libro appare antipirandelliano. Per lo scrittore siciliano un romanziere dovrebbe essere scarno e puntare decisamente all'essenziale (e a tal fine sempre Crupi ricorda la rivoluzione copernicana nel nostro caso applicata ai canoni per scrivere un buon romanzo).
Crupi conclude il suo ricco e affascinante intervento, rimanendo in tema sul concetto antipirandelliano col far rilevare una delle note più belle e più care di Alessandro Cavallaro, che nell'arte della narrazione e dell'affabulazione appare molto abile e soprattutto convincente. E' appunto nelle descrizioni di paesaggi, di una natura talvolta amara e ostile nei confronti della gente che vi abita, di quei personaggi popolari rappresentanti di una umanità infelice e, soprattutto, nel rappresentare la passione che avvince i due giovani innamorati che Cavallaro riesce a darci la misura della sua bravura narrativa. Ha chiuso la serie degli interventi lo stesso autore, A. Cavallaro, che si è soffermato soprattutto sulle condizioni storiche, sociali ed economiche della Calabria del '600.

(Gustavo Cannizzaro)



Il barone di Montebello
(e la strage degli Alberti di Pentidattilo)
di Alessandro Cavallaro

 

Culti cauloniesi - Copertina del libro
   

Le vicende narrate in questo libro si svolgono nella Calabria spagnolesca della seconda metà del XVII secolo e trattano dell'amore di Bernardino Abenavoli, barone di Montebello e discendente da uno degli eroi della famosa "Disfida di Barletta", per donna Antonia Alberti della terra di Pentidattilo. Quest'amore è fieramente contrastato dal fratello di lei, don Lorenzo, marchese di Pentidattilo, e la notte di Pasqua dell'anno 1686 il barone la rapisce e, suo malgrado, tutti i familiari della ragazza e gli amici che erano con loro vengono trucidati da quegli stessi uomini che lui stesso aveva assoldato (La strage degli Alberti!). Al barone di Montebello viene coralmente attribuita la responsabilità della strage e lentamente la rugginosa macchina poliziesca spagnola si mette in moto per catturarlo. Egli, comunque, ha il tempo di sposare Antonia e di riparare, dopo averla lasciata al sicuro in un convento presso Reggio Calabria, a Malta. Qui si arruola sotto falso nome nell'esercito dei Cavalieri di Malta e, dopo qualche tempo, passa nell'esercito asburgico col grado di capitano. E' col duca Carlo V di Lorena, quando gli eserciti imperiali entrano a Buda, abbattendo il dominio turchesco. Ma proprio qui, ironia

della sorte, viene riconosciuto da uno del suo paese e, accusato, viene deferito alla Suprema Corte Militare perché venga giudicato per la strage di Pentidattilo.
Lo salva l'imperatore d'Austria in persona, Leopoldo I, e lo reintegra nell'esercito con i gradi che già aveva. Muore combattendo contro i Turchi su una nave austriaca il 21 agosto del 1687. Questa è la storia che un pomeriggio di molti anni fa Enzo Misefari mi raccontò nella sua villetta al mare, presso Palazzi, e io ne rimasi affascinato. Mi sembrava l'argomento adatto per un romanzo d'appendice. Ma poi, avendo voluto approfondire la conoscenza di quelle vicende attraverso la lettura di libri e documenti, tentai di inquadrare l'evento in una dimensione storica, nonostante sia difficile trovare prove verificabili di come si svolsero i fatti, in quella notte di Pasqua del 1686, che portarono alla strage della famiglia del marchese Alberti.
Ed è forse proprio per questo che quei tragici eventi sono ancora vivi nella memoria delle genti del luogo: proprio perché la leggenda li avvolge col suo fascino misterioso, la fantasia è libera di immaginarli nel modo che ama di più, è libera di plasmarli a suo piacimento, di modellarli, di adattarli alle sue particolari esigenze. Se essi fossero definiti e documentati nel loro accadimento, forse non susciterebbero lo stesso interesse, non coinvolgerebbero allo stesso modo i nostri sentimenti, non ci consentirebbero di caricarli di significati soprannaturali e magici, non ci permetterebbero di udire nelle notti tempestose il lamento terrificante di quei poveri morti, quando il vento passa fra le pareti rocciose di quei ditoni di pietra,
oppure di vedere l'impronta della mano insanguinata del barone di Montebello impressa sui muri del castello.
Ciò non di meno, documentabile è il contesto storico nel quale essi si svolsero. E i documenti ci parlano di una Calabria offesa, umiliata, ai margini della vita civile, sulla quale l'artiglio rapace dell'oppressore soffoca ogni anelito di riscatto, ogni desiderio di rinascita. Le popolazioni giacciono nella più squallida miseria, in condizioni di vita disumane, nelle quali anche il domani diventa un'aspettativa di vita troppo lunga. Il problema è l'oggi, è la sopravvivenza ai morsi della fame, che scuotono le viscere e seccano la gola, è la sopravvivenza alle angherie e ai soprusi dei baroni, del clero, dello Stato; è la sopravvivenza alle avversità della natura, che in quel periodo si accanisce con particolare violenza su
quelle popolazioni inermi. E così diventa naturale che chi scampa a tante disgrazie non ha più voglia di fare progetti per il futuro, perché è talmente precaria la sua condizione, che è già tanto se riesce ad arrivare vivo fino alla fine della giornata; perché il futuro per lui è adesso, è superare questo momento, è trovare qualcosa da mettere sotto i denti per non stramazzare a terra esausto; non si fida più degli altri, perché ha sperimentato sulla propria pelle quanto grande sia l'egoismo umano, ha visto come tutti coloro ai quali aveva chiesto aiuto lo abbiano invece spinto maggiormente verso il precipizio; non riesce più a credere nello Stato, nella giustizia, nelle istituzioni, perché ogni volta che si è rivolto a loro per avere giustizia
è stato invece oggetto di un'ulteriore ingiustizia ed ogni volta che loro si sono occupati di lui, non è stato per proteggerlo, per salvaguardare i suoi diritti, ma è stato per depredarlo, per spogliarlo anche delle più misere cose, per privarlo della sua stessa dignità di uomo.
Per tutti questi motivi quell'uomo non si fida che di se stesso, si rinchiude nel proprio guscio, diffida di chiunque non faccia parte del nucleo ristretto della propria famiglia; quando può, si fa giustizia da solo, non si unisce agli altri per far valere i propri diritti, perché vede in loro dei possibili rivali, che cercano di imbrogliarlo; vive alla giornata, momento per momento, e preferisce meglio avere poco e subito, piuttosto che avere molto domani, perché non è sicuro che domani ci sarà ancora. Due secoli di dominio spagnolo lo hanno fiaccato nel fisico e nella mente e, probabilmente, proprio in quel periodo maturò in lui quel carattere, che alcuni studiosi di antropologia  definirono  " familismo amorale " e  che  ancora oggi fa
parte dell'indole e del temperamento delle popolazioni meridionali.

     

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