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Viaggio
a Torino
di
Paolo Catalano
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Il
Piemonte e poi Torino profumo sottile di cioccolato, aria rarefatta
e uggiosa e pungente, colline degradanti che annunciano le grandi
montagne che fanno da cornice, con il bianco delle cime innevate,
alla pianura torinese. Torino e le sue valli che s’incuneano
ai lati di torrenti e di fiumi che scendono a valle rumorosi.
Torino e i suoi parchi dove si ritrovano gli ex operai della
Fiat che non si rassegnano a veder morire la loro azienda, né
accettano di vederla finire nelle mani degli americani che discutono
animatamente fra una partita e l’altra di bocce, o magari
mentre leggono “ La Stampa” seduti su una panchina
al sole. Torino piatta grigia, musona, frettolosa, provinciale.
Torino con i suoi caffè frequentati da vecchie signore
e il Palazzo Reale e la “Mandria” e Superga con
la tomba dei re sabaudi e la lapide che ricorda l’immane
tragedia del “grande Torino” il cui aereo si schiantò
sulla collina al ritorno di una partita disputata in Portogallo.
Il Piemonte e Cesare Pavese di cui noi meridionali ricordiamo
il suo confino a Brancaleone durante il fascismo, i suoi libri:
Il Compagno, La Bella Estate, La Luna e i Falò, La Casa
sulla Collina. E poi Norberto Bobbio il grande filosofo, la
grande mente colorata; nei suoi scritti il richiamo alla necessità
della democrazia, del dubbio e del dialogo e del rispetto per
l’interlocutore e per l’avversario. E la casa editrice
Einaudi e Gramsci e l’Ordine Nuovo, e Primo Levi ed ancora
il quotidiano “La Stampa” e l’atmosfera di
quella cultura elitaria, discreta e però importante nella
storia d’Italia. Torino e la Fiat e quindi gli Agnelli
e quindi l’Avvocato e quindi la grande emigrazione dal
Sud, dai nostri paesi, quei visi cotti dal sole abituati ai
lavori umili delle campagne che si sono ritrovati nelle catene
di montaggio. Stipati gli uni sugli altri nei casermoni della
città del dopoguerra e la discriminazione sociale, la
ghettizzazione, gli aneddoti offensivi attraverso cui le vasche
da bagno figuravano utilizzate per piantare il prezzemolo, quel
loro parlare colorito, quando tornavano nei paesi nativi, che
voleva imitare il torinese e che era un pasticcio di accenti
e di dialetti e che solo ora, dopo la seconda generazione non
porta in sé l’accento forte della nostra parlata.
E tutt’intorno a Torino i paesini dove i meridionali hanno
trovato riparo: Venaria, Nichelino, Santena, Balangero. Sono
entrato in un negozio e la commessa, gentile e professionale,
cercava di indovinare i miei gusti ed io – da meridionale-
per fare una battuta le ho detto- “ Ma perché una
ragazza bella come lei non viene al Sud o magari a Roma e se
ne sta in questa città triste.” E lei di rimando:
“ Guardi che i miei sono del Sud come quasi tutti qui
a Torino e vengo sempre da quelle parti”. Per dire che
ormai Torino è una comunità multi etnica che ha
metabolizzato la grande emigrazione dal Sud e che ora si appresta
a metabolizzare quella degli extra europei. Torino e i suoi
grandi viali ombrosi e piatti sferzati dal vento che cala dalle
Alpi, i suoi palazzi grigi e la gente che incontri nei parchi
disseminati e nei super mercati: anziani ingobbiti che avevano
lavorato alla Fiat, sempre la Fiat in questa città e
i suoi luoghi simbolo: Lingotto, Mirafiori, Corso Sempione.
In questa Torino sono venuto per alcuni giorni e ho cercato
di fare il nonno con nipotine troppo vispe che porto, quando
ne hanno voglia e pure io, nei parchi, e questi giorni via via
diventano giorni di rivisitazione, di ricordi di antiche passioni
politiche non vissute se non negli echi, nei libri, nelle notizie,
nella storia travagliata dell’Italia, luoghi già
visitati più volte anche quando i fatti erano ancora
caldi e le passioni non sopite e i testimoni tanti e ancora
pieni d’energia. I luoghi della resistenza: il cuneese,
Alba e poi Villanova, Ciriè, Le Valli di Viù,
di Lanzo, e poi Rivoli e altri paesini attraversati velocemente
dove pare riecheggi, per chi ha l’animo predisposto come
è il mio, “il fischio del vento e l’urlo
della bufera”, dove ti pare ancora di sentire il crepitare
delle mitragliatrici, di vedere i morti degli attentati e delle
rappresaglie, i vecchi camion stracarichi di militari e quelli
invece stracarichi di uomini donne e bambini, il canto nelle
lunghe marce, di “Bella Ciao” prima che venisse
vilmente usata in video da un giornalista che non si avvedeva
così di offendere quei morti che poi io ho visto in lunghi
filari con i loro volti giovani uno dietro l’altro. I
luoghi della memoria. Balangero e Lanzo. A Balangero un filare
di cipressi prima del cimitero e tanti lapidi di partigiani
e a Lanzo, sempre prima del cimitero, una grande croce di David
su un marmo posto in un prato verde con i nomi dei deportati
scolpiti sulla pietra. Eccola la resistenza, l’olocausto
nella pelle viva di chi l’ha subito veramente. Tutto questo
rischia di venire dimenticato o strumentalizzato o invocato
e celebrato stancamente e retoricamente. Che pena. Ho visto
gente passare frettolosa, senza sentimenti, bambini giocare
mentre i genitori a cerchio parlavano del più e del meno.
Un vecchio no, quello si fermava nel viale ad ogni lapide, guardava
ogni volto, voleva fermare il dolore di una tragedia, rivivere
l’epopea dolorosa della sua gioventù, riascoltare
il sorriso di quell’amico che lo guardava da una fotografia
ingiallita, sicuramente ricordava il sangue che scorreva dalle
ferite, il gesto di quello che gli aveva preso la mano nell’ultimo
disperato saluto o di quell’altro cui aveva chiuso gli
occhi spiritati ed increduli che la morte aveva fissato. A Lanzo
ero accompagnato da un partigiano che è il fratello di
mia moglie, Claudio che non voleva ricordare, che si schermiva
nel rievocare quei momenti, che rimpiccioliva le cose, le racchiudeva
nelle circostanze, nelle coincidenze, nel trovarsi in quel posto,
nel dover fare quello che aveva fatto perché era la cosa
giusta e la cosa utile da fare. Lì a Lanzo la gran croce
di cui ho parlato prima e quei nomi e la loro età 14
anni, 6 anni, 44 anni, 74 anni, 23 anni e così via a
dimostrazione della spietatezza che non aveva risparmiato nessuno,
né giovani né vecchi.
Mia moglie ha vissuto a Balangero quando era bambina e ancora
ricordava ogni angolo di quel paesino sperduto, piccolo, posto
ai piedi dell’Amiantifera quando veniva sfruttata perché
non si conosceva la pericolosità dell’amianto.
Chissà quanti sono morti senza sapere il perché,
vittime della necessità del lavorare. Lei ricordava la
casa dove abitava la sua famiglia che ancora era lì cadente
e solitaria, con il suo atrio piccolo e grigio, le finestre
divelte, le stanze piccole e maleodoranti, i muri screpolati,
verdi di muffa e con l’umidità che colava in gocce
sottili d’acqua. Lì viveva una famiglia numerosa,
lì vivevano i meridionali quando erano anche essi emarginati,
derisi, canzonati, quando il loro lavoro era meno pagato, eppure
quei muri erano così carichi di memorie e di tenerezze
da risuonare dei sorrisi di allora, dei passi e delle grida
dei bambini .
Il tempo è passato. E’ tempo di ripartire. Quel
tempo è finito con i suoi dolori e con i suoi affanni.
Ma è finito davvero? Non rivive forse come ogni affanno,
come ogni fatica, come ogni ricordo di un’età che
ci ha visti dilaniati in una guerra senza pietà. Perché
Torino rievoca, almeno per me, la grande tragedia della guerra
e la grande epopea dell’emigrazione meridionale verso
il nord. Pavese si chiedeva riferendosi alla guerra “
E dei caduti che facciamo? Perché sono morti? –
Io non saprei cosa rispondere. Non adesso, almeno. Né
mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno unicamente
i morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero.”
E poi affermava “Per questo ogni guerra è una guerra
civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione.”
Io voglio dilatare questo concetto come Torino reclama e ancor
più la mia gente reclama:- E di quelli che sono partiti
che memoria vogliamo avere, del loro sacrificio quale uso vogliamo
fare? Cosa mai fare noi per loro che possa , almeno in parte,
ripagarli per quello che loro hanno fatto per noi?.” E
di Torino, dolce e gentile, cosa dire? Quale ricordo avere?
Il mio, e credo quello di tanti, è un ricordo grato.
Mi riserverò sempre il piacere di ritornare.
Grazie Torino.
Ciao Torino . |
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