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Quando
eravamo ragazzi
di
Paolo Catalano
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Quando
eravamo ragazzi era di un bello che non avete l’idea.
Si andava scalzi per le strade e i campagnoli per venire dalle
contrada guadavano le fiumare secche d’estate ma piene
d’acqua nei nostri autunni piovosi. Avevamo un paese che
voi non avete più, piccolo e grazioso.
Un paese che profumava di natura, immerso nel verde degli alberi
e degli orti, con i suoni della campagna che vincevano ogni
altro, con i colori delle stagioni: il verde della primavera,
il giallo di grano maturo dell’estate, il rubino delle
foglie morte dell’autunno, il grigio dell’inverno;
con gli odori di fritto delle alici e delle sarde, del ragù
la domenica, di cavoli e legumi gli altri giorni. Con la fila
di panni lavati e messi sulla via ad asciugare al sole su un
filo di ferro fissato alle due estremità del muro da
robusti chiodi.
Raccolto nei rioni e nelle “rughe” e orgoglioso
delle varie appartenenze che poi celavano anche altre peculiarità:
gli sbarroti erano pescatori come quelli di Santa Caterina,
operai ed industriali quelli dello “stabilimento”
e commercianti quelli della marina, contadini quelli del centro
storico e delle contrade.
Certo con i segni della povertà degli abitanti: le case
basse di tufo e imbiancate a calce viva, le strade polverose
non ancora asfaltate, le scuole ubicate in vecchi edifici spesso
umidi e malsani, il cinema costruito vicino a piazza Municipio
con assi e tavole di legno, il mercato del bestiame che si teneva
ogni giovedì sulla spiaggia di fronte alla Chiesa di
Portosalvo, con le vigne e gli uliveti a ridosso del paese.
E poi le grandi buche non ancora colmate dove erano cadute le
bombe dell’unico, mi pare di ricordare, bombardamento
che aveva subito il nostro paese. I rifugi antiaerei erano posti
lungo le strade e uno di essi era proprio vicino casa mia in
Corso Garibaldi.
Noi abitavamo il paese più che le nostre case, eravamo
sempre a gironzolare per le vie per poi ritrovarci nei larghi
spazi che si aprivano di tanto in tanto nella campagna. Sentivamo
“u bandijaturi” che, a voce alta e cantilenando,
annunciava ai cittadini che al mercato era arrivato il pesce
fresco, ma non solo questo: lui era il megafono della comunità,
da lui passavano le grandi e le piccole notizie. Era vecchio,
almeno nel mio ricordo, e scalzo e aveva i calzoni rattoppati.
Sentivamo il canto degli uccelli e bastava girare l’angolo
per avvertire il profumo della campagna. Quando eravamo ragazzi,
nonostante tutto, avevamo tanta voglia di ridere e di scherzare.
Non importava che non avevamo le scarpe ai piedi e che, per
colazione, mangiavamo fichi secchi. Quando eravamo ragazzi sentivamo
il suono delle campane che scendeva nelle strade e ci raggiungeva
ovunque noi fossimo. In quel tempo guardavamo le ragazze paffutelle
con le loro calze bianche e le treccine con i nastri e gli occhi
fuggitivi ed eravamo anche noi come voi oggi un poco maliziosi
e loro pure e però eravamo più innocenti di voi
e le nostre guance arrossivano facilmente. Di primavera era
bello camminare a piedi nudi fra l’erba verde. Ricordo
che noi ragazzi ci riunivamo sotto la grande quercia. Era il
luogo dove, chi prima chi dopo, ci ritrovavamo per giocare a
calcio. Ci si divideva facendo la conta in due squadre ed incominciavamo
delle partite che non finivano mai fino a quando la notte prendeva
il posto del giorno. Io allora rientravo a casa con un senso
di colpa opprimente. Non avevo studiato, ero sparito senza lasciare
tracce. Avevo fatto tardi. Cercavo allora di inventarmi qualche
scusa mentre sgattaiolavo dentro casa. Poi prendevo i libri
e fingevo di studiare avendo ancora la mente a quello che avevo
fatto il pomeriggio oppure sognavo ad occhi aperti sull’ultimo
libro di Salgari che avevo letto. Poter fare il mozzo sulla
nave di Morgan il pirata, sbarcare in un porto delle Antille
o andare nella giungla e combattere a fianco di Sandocan. Sentivo
poi dei passi e pregavo che fosse mia sorella e non mia madre.
Ed invece era spesso mia madre con quel suo viso segnato dalla
tristezza e dal dolore mai sopito per la morte di mio padre.
Sollevavo gli occhi e volevo sprofondare, sparire, essere inghiottito
dall’inferno. Dio che vigliacco che ero.
Avrei voluto dire: -"Mamma hai ragione, menami, dammi tante
botte da non poter sentire altro che il dolore che mi merito"-.
Ma lei non mi menava. Lei si metteva a piangere ed invocava
mio padre e si tirava i capelli e poi si rivolgeva a me per
dire solamente “se ci fosse tuo padre”, ed era peggio
che prendere le botte. Alzavo gli occhi sul suo viso bellissimo
e avrei voluto abbracciarla, accarezzarla, rassicurarla, farle
sentire tutto il bene che sentivo per lei, tutto il dolore che
avevo nel cuore per quel padre che ricordavo appena, avrei voluto
essere un piccolo grande uomo e proteggerla con il mio amore
e farle dimenticare il dolore soffocandola di bene, facendola
sentire orgogliosa di quel figlio così pieno di virtù
che ahimè non avevo. Poi io le poggiavo la testa sul
grembo e mi stringevo a lei senza dire niente e sentivo poi
la sua mano ruvida di fatiche che mi carezzava i capelli e piano
piano i singhiozzi cessavano e avrei voluto che quei momenti
di tenerezza non finissero mai come mai non sono finite perché
ancora oggi sento quella mano e sento il cuore sciogliersi e
il respiro trattenersi nella speranza che il tempo si fermi,
indugi per qualche attimo ancora. La sera poi ci sedevamo attorno
al braciere che era poggiato su un ruota di legno, io mia madre
e le mie sorelle. Allora percepivo a fondo le ragioni della
disperazione di mia madre, sentivo il cuore sanguinare, capivo
ed ero parte di quel dolore. Era un ritrovarsi soli ed indifesi
senza quel padre di cui lei parlava con un amore senza fine,
era come aspettare che succedesse qualcosa, che il buon Dio
ce lo restituisse, era la sua ombra che ci sovrastava e quella
morte si dilatava, ci avvolgeva e ci comprendeva, il cielo si
abbassava. Il fuoco si celava sotto la cenere della carbonella
ed emanava un tepore discreto. Le mie sorelle avevano voglia
di ridere, di parlare dei loro innamorati, dei libri che stavano
leggendo, ma non osavano farlo. Io stavo lì accucciato
e mi stringevo discretamente a mia madre mentre cercavo di leggere
uno dei miei libri di allora: “Moby Dick”, “L’isola
del tesoro”, “Pinocchio”. Mia madre non riusciva
a sorridere ed io avrei dato non so ché per vederla finalmente
sorridere in modo da scacciare dal suo viso quella traccia di
morte opprimente che dopo aver ghermito mio padre pareva avesse
voluto rimanere lì ghignante e perfida.
I giorni scorrevano e le cose cambiavano, davanti al municipio
c’era la piazza con il monumento ai caduti. Lì
era il cuore del mio vecchio paese. Lì ci si raccoglieva
in capannelli sempre più numerosi e si sentivano i discorsi
dei più grandi che avevano la passione per la politica,
che sentivano soffiare il vento del rinnovamento e noi ci entusiasmavamo
per quelle parole infuocate e pensavamo davvero che l’avvenire
sarebbe stato bellissimo e che tutti saremmo stati uguali, avremmo
avuto opportunità migliori dei nostri padri, sentivamo
che saremmo vissuti nei nostri paesi e non ci saremmo calati
più nelle miniere del Belgio o dell’Inghilterra
e che non saremmo saliti più in quelle luride navi che
avevano portato migliaia di noi oltre oceano. Quelle speranze
svanirono come neve al sole. I registri dei nostri municipi
continuarono a registrare i nomi dei nostri emigrati, intere
famiglie che sparivano in cerca di fortuna. Non era morto il
tale, era partito, più nulla avremmo saputo di lui, il
suo ricordo sarebbe sbiadito offuscato da una realtà
che proponeva altri volti e altre cose. Il suo volto, gli aneddoti
legati a lui, i ricordi di giorni passati assieme piano piano
si affievolivano fino a cancellarsi. Poi dopo anni arrivava
la notizia della sua morte in una terra lontana. Quella notizia
riportava il suo ricordo assieme agli aneddoti, ai sentimenti,
ai rimpianti, episodi dimenticati ritornavano alla mente e lui
così ritornava con noi per l’ultima volta vivo.
Era la sua festa di commiato poi sarebbe svanito dalle nostre
menti in modo definitivo.
Non siamo più ragazzi. Da tanto tempo non lo siamo più.
Ora il mondo è diverso, forse comincia a non comprenderci
più. Peccato. E però è giusto che sia così.
Anzi non può che essere così perché questo
è il sale della vita. |
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