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Peppe
Sarroino - Il profumo della poesia
di
Paolo Catalano
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Il
filo dei ricordi è spesso menzognero, fragile, a volte
disperato. Avventurarsi in esso è molto rischioso. Non
si possono stabilire fatti incontestabili. Almeno io non lo
posso fare. Piuttosto mi affido alle emozioni. Alle sensazioni
sottili e indecifrabili che fanno riemergere, mondati d'ogni
impurità, persone, luoghi, momenti che parevano sepolti
per sempre. Occuparmi del passato non è il mio mestiere.
Non basta girarsi all'indietro per darne un'occhiata. E però,
sia come sia, esso rimane sempre impigliato da qualche parte,
magari a piccoli lembi. Basta un ricordo, un percorso tenue
della memoria, un papavero che ricordi, in un certo giorno della
tua vita, piegarsi al vento primaverile. Un oggetto che ti è
rimasto aggrappato per dare un senso a quel fatto, a quella
sensazione. Un uomo come tanti e più di tanti, innocente,
stralunato, avvolto nel labirinto di pensieri, di voglie, d'umori,
di disperata ricerca di una verità evanescente perché
proveniente dalla poesia, dal pensiero.
Io amo la mia Siderno, quella di quand'ero giovane, forse perché
ero giovane, forse perché mi preparavo assieme alla mia
città all'avventura della vita. Lo facevo con una folla
d'amici, d'epigoni, d'emozioni. Ora sono più solo e ho
modo di meglio ricordare.
Molti di quelli che avranno la pazienza di leggere queste poche
righe non sanno cosa sia stato il Caffè - Gelateria Sarroino.
Posto al centro del paese era allora il salotto buono, la gelateria
dove si mangiava il miglior gelato e le migliori paste alla
crema. Lì si consumava il rito di allora, il rito delle
feste nelle cui giornate si potevano assaggiare i sorbetti,
i pezzi duri, le granite. Lì vi approdavano le famiglie
d'allora, padri, madri, figli con il vestito buono e l'impaccio
di chi non era abituato alla mondanità. Il proprietario
era il grande Luigi, uomo singolare, poeta, artista, cesellatore
e quindi pasticciere, mestiere che faceva con grande passione.
La soggezione che quell'uomo incuteva, le sedie e i tavolini
sulla sottile striscia di marciapiede, l'arredamento liberty
della pasticceria, lo sguardo di tanti cittadini che andavano
su e giù per gustarsi la festa, costruivano il fascino,
il mito del posto, la sua particolarità.
Aveva due figli, uno di essi era Peppe Sarroino. Peppe Sarroino
aveva letto molti libri e vagava assillato alla ricerca di qualcosa
che gli sfuggiva e che sapeva essere importante per sé
e per la sua gente. Era sempre con il cuore in tumulto e con
le parole che si affollavano sulle labbra, aveva un'insaziabile
passione per la vita che era diversa da quella che vivevamo
noi che non sapevamo.
Lui voleva penetrarne la sua essenza più profonda e si
stordiva in questi suoi pensieri.
Ricordo un suo tenerissimo amore per una ragazza che arrivò
qui da non so dove per dirigere la biblioteca e i servizi dell'
UNLA. Rossa di capelli e piena di lentiggini, esile ed eterea,
era irraggiungibile per il nostro Peppe. Eppure lui seppe vivere
questo suo amore con dignità e con il soffio della poesia.
Che importava se il destino l'avrebbe portata lontano, in qualche
paese sconosciuto, lui le aveva costruito una nicchia invalicabile
nel suo cuore, dove solo lui poteva esserci, dove era solo sua
e poteva vivere momenti indimenticabili. Poi continuava a cercare,
a leggere libri e citare, sempre a proposito, filosofi e scrittori,
ad immaginare nuove strade e nuove opportunità per il
proprio paese. Non aveva interlocutori, forse qualche intellettuale
che passava casualmente dalle nostre parti come Gustavo Malan
di Torre Pellice, come Antonio Mallardi autore del "Levantazzo"
e divoratore delle paste della pasticceria Sarroino. I suoi
amici non riuscivano a penetrare la sua anima, nessuno intuiva
veramente la profondità dei suoi pensieri, tutti si giravano
da qualche altra parte senza accorgersi che avevano un uomo
colto, inquieto, sensibile davanti a loro: un uomo che avrebbe,
purtroppo, lasciato tracce tanto labili da essere cancellate
con inesorabile velocità. Eppure entro la sua trasandatezza
racchiudeva dei sentimenti così autentici e veri, immagini
così ricche di varia umanità da farmi ancora pensare
che gli sciocchi eravamo noi che non capivamo e che continuavamo
ad andare con stoltezza poveri della nostra superbia.
Peppe Sarroino faceva parte della nostra storia, rappresentava,
in modo originale, tratti salienti del nostro modo d'essere.
Era un uomo tormentato ma era un uomo vero con le sue fragilità,
i suoi sogni, le sue utopie. Faceva parte della lunga schiera
dei vinti, si trascinava inseguendo un mondo che forse non esisteva
e anche questo suo mondo, piano piano svanì. Perse la
sua vivace comunicativa, perse la sua verve polemica, si trascinò
sempre più stancamente. Aveva cessato di combattere.
Anche i suoi mulini a vento erano svaniti assieme alla sua Dulcinea
partita con un altro uomo non si sa per dove. Non resse alla
sua solitudine e ai suoi malanni. Non s'indignò più
per la sua gente, per il suo Sud che moriva, per i progetti
che aveva immaginato ed inseguito e che erano deperiti fino
a svanire. Morì senza che nessuno dei suoi amici se n'accorgesse,
dimenticato, solo. Quell'uomo che vagava come qualcun altro
nell'antichità, cercava ancora il suo mondo ideale, le
sue utopie di sognatore. Era anch'egli un vinto come tanti nel
Sud e nessuno si accorse che con lui moriva un po' di poesia,
un po' d'immaginazione, un po' d'innocenza, un po' di quella
vita che varrebbe la pena vivere.
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