Politico - Scrittore
           

 

 

 

 

 

 

 


 

La fine di un amore

di Paolo Catalano

 
  Ora non le restava che aspettare. Si guardò nello specchio aveva un'espressione sfuggente, un leggero sorriso appena accennato, così lieve e così mobile da lasciare all'immaginazione più che alla ragione l'interpretazione di cosa passasse nella sua mente: una sorta di mistero, quel suo viso nella penombra della stanza e però nessuno poteva sapere quanto il suo mondo si fosse frantumato. No, nessun mistero, forse era il tentativo di nascondere pudicamente la pietà dolente che provava per se stessa e per l'amore grande che le bruciava il cuore, che le saliva alla gola quasi soffocandola e che lei voleva celare, con un velo d'ironia. Fatto è che tutto questo la rendeva incredibilmente bella.
"Ma non si può escludere niente", pensava mentre il suo sguardo girava inquieto nella piccola stanza alle cui pareti stavano appese: reti di pescatore e tante stelle marine e conchiglie e anche una piccola ancora. Ebbe l'impressione di sentire il profumo del mare.
"Non c'era niente da fare". Alla fine pensò che la sua attesa sarebbe stata lunga ed inutile, non sarebbe più venuto e lei non avrebbe avuto modo di dire ciò che aveva nel cuore. Dette uno sguardo dalla piccola finestra che dava sul mare e vide ritornare le barche i cui colori erano riflessi dalla superficie liscia dell'acqua che si spezzava violentemente man mano che
le increspature, provocate dalle prue, si andavano allargando e le scie così fissate sembravano stelle cadenti perché luminose per via dei raggi del sole morente che le rendevano iridescenti. Sapeva che quelle barche la mattina uscivano quando il sole non era ancora spuntato, tanto che ad uno sprovveduto, sarebbe sembrata notte fonda. I pescatori stavano ai remi, altri marinai andavano avanti e indietro, da poppa a prua e da prua a poppa, per sistemare le reti e per controllare che tutto fosse in ordine per la giornata di pesca che si apriva dura davanti a loro. Voci e a volte urla, accompagnavano ogni gesto e richiami si lanciavano da barca a barca, per non disperdersi nella notte. Così le barche si dispiegavano e i marinai, di tanto in tanto, sollevavano lo sguardo verso il cielo stellato e senza l'ombra della luna.
"Come è grande il mare", pensò mentre il sorriso si stemperò e si spense lasciandole nel cuore un vuoto profondo da potersi paragonare all'immensità di quella distesa azzurra che si perdeva all'orizzonte. Fissò ancora lo sguardo entro le barche che si avvicinavano verso il porticciolo naturale che era vicino alla casetta sulla roccia, da lei scelta per quell'incontro così improbabile e così sognato, ma non c'era vita in esse, i marinai erano fiaccati dalla giornata faticosa, le reti erano avvolte l'una accanto all'altra e solo il timoniere stava seduto a poppa mentre gli altri stavano sdraiati sul fondo della barca. Cercò di indovinare se la pesca era andata bene ma non c'erano segni, così si rassegnò ad augurarselo in cuor suo, almeno qualcuno quella sera avrebbe avuto modo di sorridere. Era venuta in quella piccola isola dopo una lettera accorata che aveva spedito prima di partire:
" Amore mio, permettimi nonostante tutto di chiamarti amore, non fosse altro per i giorni felici, tempestosi, amari, dolci che abbiamo passato assieme. Permettimi di sognare che tutto si possa ricomporre, che le ragioni dell'uno e dell'altro possano stare assieme e che le buone cose che abbiamo vissuto siano in grado di sconfiggere quelle brutte che ci hanno allontanato e ferito. Io non so più chi ha incominciato e non so più di chi possa essere la colpa, tu la darai a me ed io me l'assumo tutta perché non voglio perderti, perché mi sono accorta, in questi mesi, quanto importante tu sei stato per me. Sono passata ieri sera dal bar che ci ha visto felici, mi sembrava di riconoscere le stesse persone d'allora, i loro visi che, a noi che eravamo felici, ci apparivano felici perché avevamo bisogno di crederlo e perché il mondo non poteva avere dolori e sofferenze, perché volevamo che quelle persone, di cui non conoscevamo niente, e che forse mai più avremmo rivisto, avessero il nostro destino fatto di felicità e d'amore. Come eravamo illusi. Come il nostro pensare era fatuo e menzognero. Già allora avremmo dovuto capire e trovare i rimedi ma è facile dirlo ora, me ne rendo conto. Se penso a ciò che è stato mi sento disperata. Tu, i tuoi pensieri, il tuo sguardo, il tuo volto, i tuoi modi gentili, il tuo sorriso, il tuo pensiero così nobile, così attendo e speculativo e però teso sempre verso orizzonti più ampi ed occasioni più struggenti con il resto del mondo e della sua storia; tu anima mia, che altro se non tu ha scandito gli attimi più belli della vita?
Ricordi quella volta a Cesenatico, con i piedi entro l'acqua del mare e la pioggia sottile che colava leggera dai tuoi capelli e rigava il tuo viso, quella pioggia che mi aveva disegnata il seno che tu ti chinasti a baciare, ricordi quanto è stato bello la notte stare l'uno accanto all'altro, dopo, quando ancora esausti lasciavamo solo alle mani di toccarsi leggermente perché non fossimo portati a pensare di aver sognato. Pensammo allora, per non prenderci sul serio, per non inoltrarci in un terreno senza ritorno, che l'amore è davvero un castigo, un castigo grande che capita a chi non riesce a stare solo, una jattura ingannevole perché nessuno capisce in quale immane vortice va a ficcarsi, e che noi dovevamo restare lucidi e non cadere nel tranello e però non ci riuscimmo e fummo sommersi. Allora ti dissi, prendendo in prestito una frase della Yourcenar "Bisogna amarti molto per rimanere capace di soffrirti". Non sapevo allora quanto fossi vicina alla realtà, ma tu puoi dire la stessa cosa di me. L'amore, il piacere che mi hai dato: un dolce volo fra le stelle, una forma di dissoluta irrefrenabile ansia di vivere, la morbida armonia del tuo corpo. Il tuo essere tu e nessun altro al mondo ti ha posto nel mio cuore. E quanto mi dolgo, di non averlo capito per tempo! Eppure avevo fatto di te il mio messaggero e il mio unicorno che mi avrebbe fatto scoprire l'universo.
I giorni all'università sono vuoti e mi aggiro per le stanze che mi appaiono squallide e senza luce. La città mi opprime, mi soffoca, mi è nemica. Tutto mi disturba quando prima tutto era lontano, ovattato e rilucente. Le piazze, i monumenti, le strade, il frenetico muoversi di milioni di uomini e donne e bambini dalle facce così diverse e dal parlare, a volte chiaro alle nostre conoscenze, a volte oscuro che tanto ci affascinava, non riesco più a sentirlo. Ho deciso di partire, di andare lontano, di trovare un'isola felice. Ti prego raggiungimi non lasciarmi più sola, vieni e se non vuoi più amarmi o se non puoi, allora uccidimi, fammi morire mentre ti guardo ringraziandoti di avermi impedito di vivere una vita di solitudine. Vieni. Ti amo".
Si riscosse al rumore del passo leggero di un marinaio che risaliva dalla marina, le ombre della sera si allungavano, il mare si confondeva con il cielo, ma non c'era niente che potesse distoglierla da quella finestra, dalla vista dei gabbiani appollaiati sulla spiaggia che non avrebbe più visto da un momento all'altro. Esiste un solo uomo per ogni donna, non vi sono altri, nessun altro cui aprire il cuore, nessun altro cui raccontare le tue storie, nessun altro con cui parlare o sorridere o soffrire, tutto il resto non sono che imitazioni, ricerche disperate di trovare in qualcun altro ciò di cui il tuo cuore si era riempito fino a scoppiarne.
Le lacrime le rigavano il viso, ormai non aveva più speranze, era tutto finito.
Dette un ultimo sguardo sulla strada che costeggiava la costa, vide un uomo che avanzava, s'illuse che fosse lui. Non lo era. Si stese sul letto e capì che qualunque fosse stata la sua vita futura lei moriva quella sera mentre il mare le mandava il suono delle sue onde che accarezzavano dolcemente la sabbia.

 

 


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